La conferenza del COP 26 sui cambiamenti climatici si è chiusa con un evidente paradosso. Da un lato il segretario dell’ONU che avverte: “Siamo sulla buona strada verso la catastrofe”, dall’altra risultati che sono stati universalmente considerati attendisti e sostanzialmente deludenti. Una sorta di catastrofismo impotente, con i lobbisti dei produttori di combustibili fossili, presenti a migliaia durante la conferenza, che si sfregano le mani e gli ambientalisti sempre più delusi.
Secondo molti non c’è nulla di cui sorprendersi. In realtà, si sottolinea, una vera inversione di tendenza non può venire da qualche promessa o da qualche provvedimento isolato e parziale. Per fare veramente la differenza sarebbe necessario un vero e proprio cambiamento di paradigma. Arrestare la macchina della crescita senza limiti e senza freni del modello e delle pratiche del produttivismo e del consumismo capitalista.
Io sono sostanzialmente d’accordo, ma mi chiedo se nel fare queste affermazioni siamo tutti consapevoli (militanti e agitatori compresi) a quali radicali cambiamenti, anche in termini di “rinunce” personali e collettive, sarebbero costretti, nelle abitudini delle loro vite, gli abitatori del mondo, ma soprattutto e in particolare noi “cittadini dell’occidente”. Non a caso qualcuno ha detto che uno dei motivi dell’attuale immobilismo politico sta nel fatto che “i grandi della terra” devono fare i conti con i loro elettori.
Giusto per capirci, anche procedendo un po’ a caso e senza pretese di sistematicità e completezza, vediamo cosa potrebbe comportare l’abbandono dell’attuale paradigma capitalista se preso sul serio:
1) non basta ridurre, anzi azzerare in tempi brevi, le emissioni di CO2, se non si inquadra questa prospettiva dentro una logica di decrescita globale dell’occidente ricco, o quanto meno di un rallentamento della crescita. L’idea ottimistica che basti modificare il “modello di sviluppo” senza abbassare i numeri, si scontra con l’evidenza di tutti i dati disponibili. Limitiamoci a ricordare che quest’anno lo Earth Overshoot Day (la data in cui esauriamo le risorse che la terra ci mette a disposizione per l’intero anno, e oltre la quale ci limitiamo a distruggere) è caduta il 29 luglio, con un conseguente innalzamento a 1,4 della impronta ecologica (l’indice di consumo delle risorse naturali, che dovrebbe essere pari ad 1). D’altra parte, oltre i numeri, deforestazione, distruzione della biodiversità, innalzamento climatico e innalzamento degli oceani, esplosioni pandemiche e quant’altro, sono sotto gli occhi di tutti. Naturalmente la decrescita del “mondo ricco” dovrebbe essere di una tale grandezza da essere in grado, non solo di rendere sostenibile lo sfruttamento delle risorse della terra, ma anche di rendere possibile che a tale sfruttamento possa partecipare anche il “mondo povero”, in modo paritario, e in una logica che per loro sarebbe di sviluppo. Infine perché un processo di una tale portata possa essere messo in atto sono necessarie alcune imprescindibili condizioni. In particolare e tra le altre:
2) abbattere il dominio della finanza globale. Nello specifico: Limitare fortemente e sottoporre a rigido controllo la circolazione dei capitali. Mettere fuori legge i paradisi fiscali. Separare le banche commerciali dalle banche di investimento. Limitare il potere delle banche e delle società finanziarie (compreso le false fondazioni benefiche dei miliardari) rendendo trasparenti i bilanci, con l’eliminazione del segreto bancario, la proibizione delle società “veicolo” e della pratica delle cartolarizzazioni, la chiusura del mercato dei derivati. Sottoporre a rigida disciplina, anche fiscale, ogni sorta di manovra speculativa. Creare una solida rete di banche pubbliche. Demonetizzare, a livello mondo, i “beni comuni” essenziali alla sopravvivenza dell’uomo e del suo ambiente.
3) abbattere il potere del capitalismo delle piattaforme e dei giganti del web. Sottoporre i potenti della rete (Facebook, Apple, Amazon, Microsoft e Google innanzitutto) ad un rigoroso, e quantitativamente consistente, controllo fiscale. Disciplinare in modo stringente e universale le norme a garanzia della privacy degli utenti. Impedire le pratiche di quello che è stato definito il “Capitalismo della sorveglianza”. Non consentire lo spionaggio delle nostre vite attraverso la raccolta incessante dei dati personali che vengono poi processati, trasformati in Big Data, e ceduti infine al migliore offerente.
4) trasferire ricchezza dai paesi ricchi ai paesi poveri. Innanzitutto in termini di ricchezza materiale e libera circolazione delle merci, ma poi anche, e direi soprattutto, nei termini di una libera circolazione dei saperi e delle conoscenze, del know-how e delle tecnologie, con abolizione della proprietà intellettuale e dei brevetti. Per una reale equità globale è necessaria poi la cancellazione del debito pubblico a livello planetario, con possibile (e futuribile) creazione di una moneta solidale da parte di una banca mondiale che sia gestita, per così dire, “dal basso”, secondo logiche comunitarie e di mutualismo globale, che sono ovviamente (e letteralmente) tutte da inventare.
A questo punto sento già sul collo il fiato di tutte le possibili obiezioni: “Una inutile lista. Un libro dei sogni dove c’è di tutto, di più, e tutto insieme in un calderone di proposte irrealizzabili, almeno nel breve periodo”. Il paradosso è che in parte sarei pure d’accordo con simili obiezioni. In realtà lo scopo che mi ero prefisso era proprio quello di mettere in fila una sommatoria di criticità e di soluzioni ideali, a dimostrazione della enormità del problema, ma anche della inadeguatezza nostra e di tutti nel sapere trovare le giuste soluzioni, le giuste strategie e i percorsi possibili, almeno in quella brevità di tempi che la situazione oggi richiede. Quello che appare al momento impossibile, è esattamente quello che invece sarebbe necessario per cambiare realmente lo stato delle cose. Se mi si concede la chiusura ad effetto direi che al necessario “realismo del dover essere” (ciò che andrebbe fatto) si oppone “l’utopia dell’essere” (l’impossibilità di farlo nella situazione presente).
Mi viene in mente a questo punto un sillogismo che potrebbe sintetizzare, per la verità in modo decisamente pessimistico, tutto il nostro ragionamento:
-premessa maggiore: “Salvare il mondo e permettere la sopravvivenza dell’uomo è un cambio radicale e in tempi brevi dell’attuale paradigma dello sviluppo capitalista.”
-premessa minore: “Un cambio radicale e in tempi brevi dell’attuale paradigma dello sviluppo capitalista è impossibile.”
-conclusione: “Salvare il mondo e permettere la sopravvivenza dell’uomo è impossibile.”
Il che equivale a dire che in breve tempo (e non “sul lungo periodo” come diceva Keynes, riferendosi solo alla singola generazione) “Siamo tutti morti”.
P.S. (Come una nota finale). Capisco che le conclusioni possono apparire troppo pessimistiche e senza appello. Voglio ricordare tuttavia che non esistono mai verità che si possano dire assolute e senza discussioni, figurarsi poi quelle prodotte dalla mia mente. Questo significa che un piccolo spiraglio per cambiare le cose, deve essere sempre considerato possibile, anche di fronte a quella che sembra una incontestabile evidenza. Il fatto poi che lo spiraglio sia piccolo può addirittura essere anche un bene, perché ci può dare la consapevolezza della vastità dell’impegno che ci attende.