Intervistiamo Francesco Comina (Bolzano, 1967), giornalista, scrittore, pacifista, grande animatore culturale. Parliamo con lui della sua vita, dell’Alto Adige e del suo ultimo libro, intitolato “Solo contro Hitler. Franz Jägerstätter, il primato della coscienza (EMI).
Parti dall’inizio
Ho studiato lettere e filosofia a Verona e ho terminato con una tesi su Raimon Pannikar, un grande pensatore tra Oriente e Occidente, a quel tempo ancora vivo. Mi sono formato nell’ambito del cattolicesimo progressista, Balducci, Turoldo, Cittadella di Assisi, con questo fermento tra credenti e non credenti, con il tema del dialogo con l’alterità e la diversità. Dopo aver fatto l’obiettore di coscienza ho iniziato nel ’94 come giornalista in diversi quotidiani del Trentino Alto-Adige.
Nel 2003 con alcuni amici abbiamo fondato un Centro per la pace e i diritti umani a Bolzano, incardinato nel Consiglio Comunale della città. Dal 2007 ho coordinato per 10 anni questo centro, che è diventato un punto di riferimento sia a livello locale che a livello nazionale ed internazionale. Bolzano in quegli anni era un importante crocevia tra Europa, America Latina, Africa, Asia. Da qui sono passati grandi pensatori: Agnes Heller (con cui ho avuto una lunga amicizia e scritto due libri) ) Zygmunt Bauman, Premi Nobel per la Pace e la Letteratura come Adolfo Pérez Esquivel, Rigoberta Menchù, Wole Soyinka. Testimoni del Vangelo come Frei Betto, Leonardo Boff, Arturo Paoli, Alex Zanotelli. Grandi scrittori come Ryszard Kapuscinski, Gioconda Belli, Luis Sepulveda, Serge Latouche ecc. È stato un laboratorio straordinario.
Nel 2017, cambiata la configurazione politica a Bolzano, ho deciso di lasciare. In questi anni ho scritto una quindicina di libri. Ultimamente ho lavorato in un teatro qui a Bolzano.
Un centro di “frontiera”, in una “città di frontiera”.
Si, l’Alto-Adige è legato alla Mitteleuropa, luogo di possibile integrazione tra le culture, ma è anche una terra difficile e complicata. E’ ricco di storia, come spesso avviene nei territori di confine, con le possibilità e i rischi che vi sono in queste zone: nazionalismi da una parte e dall’altra, rivendicazioni etniche e tentativi di superarle. L’Alto-Adige ha un’autonomia solida e questo fa sì che nel resto d’Italia ci possa essere una certa invidia, è un territorio strano dove in passato vi sono state lotte furibonde tra italiani e tedeschi, per esempio durante il fascismo con l’italianizzazione forzata dopo la Prima Guerra Mondiale. L’oppressione della popolazione tedesca, il periodo delle opzioni nel ’39 in seguito ad un accordo tra Hitler e Mussolini: chi voleva mantenere lingua e tradizioni doveva andare nel Reich. Fu un periodo duro, con una grande propaganda nazista. 70mila persone si trasferirono nel Reich, senza trovare tutto ciò che era stato promesso. Molti tornarono indietro dopo la guerra. Un dramma nel dramma.
Su queste vicende molto complicate si costruì la politica autonomistica, con l’obiettivo di non essere più “carne da macello”. Poi ci fu il periodo difficile degli attentati ai tralicci, negli anni ’60 qui si rischiò una guerra civile: grazie alla lungimiranza di alcuni politici, anche della DC, si trovò un accordo e nel ’72 si raggiunse un’autonomia provinciale che è il frutto di queste tragedie. Tutta questa storia ci ha segnato e anche negli anni successivi lo scontro, seppur latente, è rimasto. Una luce in questo periodo è stata sicuramente quella di Alex Langer, che cercò di attuare con grande fatica una politica interetnica. Adesso, in provincia, la maggioranza è tedesca. Qualche settimana fa qui ci sono state le elezioni. A Merano, come a Bolzano, il sindaco è italiano.
E’ curioso sentirti usare il termine “italiano”…
Ma questa è la realtà di qui.
Anche in Alto Adige, come in Catalogna, la lingua è un terreno di scontro?
Abbastanza. C’è il bilinguismo. Per accedere ai posti pubblici bisogna sapere le due lingue e c’è una proporzionale etnica, con delle quote. Poi c’è anche la minoranza dei ladini, con una sua lingua e cultura.
Eppure tu hai “puntato sul mondo”
L’idea è quella di capire che siamo parte di un mondo molto più grande e queste discussioni, che spesso avvengono nelle zone di confine, andrebbero superate con un’ottica universalistica. Il nostro lavoro con il Centro per la pace, aprendo spazi di dibattito e incontro, ha avuto un’ottima risposta da parte della popolazione.
Parlaci del tuo ultimo libro, “Solo contro Hitler. Franz Jägerstätter, il primato della coscienza” (EMI)
È la vicenda di un giovane contadino austriaco che si ribellò ad Hitler. È una storia sconvolgente che mi ha coinvolto molto, anche emotivamente. Mi ero già interessato a questo tipo di vicende; il protagonista del mio primo libro (“L’uomo che disse no a Hitler. Josef Mayr-Nusser un eroe solitario” ed. il Margine) era un giovane sud-tirolese, Josef Mayr-Nusser, che ebbe una storia analoga a quella di Franz Jägerstätter. Josef, cattolico, padre di famiglia, presidente dei giovani dell’Azione Cattolica, cassiere in una ditta commerciale, si rese conto che qualcosa non quadrava nel rapporto tra fede e politica e decise di rifiutare il giuramento a Hitler. Condannato a morte, morì di stenti durante il trasporto a Dachau.
L’ultima vicenda che racconto, quella di Franz, è un po’ diversa perché qui si tratta di un contadino austriaco, con la quinta elementare e testimonia la possibilità che una persona del popolo, nata e cresciuta in un paesino sperduto, capisca quello che stava succedendo. È la storia di un uomo SOLO contro tutti, contro il paese, la Chiesa, la famiglia (a parte la moglie), con tre bimbe piccole e una fattoria da gestire, a 30 km dal paese natale di Hitler. Lui capisce e scrive tantissimo, parole, riflessioni, analisi, che ritroveremo nei grandi pensatori del dopoguerra. Il principio della responsabilità, i temi dell’obbedienza e della disobbedienza, dell’idolatria del potere, della pace e dell’amore per il prossimo. Rifiutò la divisa, venne incarcerato e portato a Berlino per essere condannato in maniera esemplare e lì ghigliottinato il 9 agosto del ’43.
In entrambi i casi si è tentato di cancellare la loro memoria e il loro esempio, scomodi per tutti, Chiesa in testa. La loro valorizzazione avviene molto a posteriori, a partire da ricerche compiute lontano. Alla fine, arriva anche la Chiesa, sempre tardi, a riconoscerli come uomini di coraggio e di valore. Entrambi negli ultimi anni sono stati beatificati.
La figura di Franz Jägerstätter è di una radicalità pazzesca: un uomo che ha difeso la sua verità con tutti coloro che hanno cercato di dissuaderlo. Lui è andato avanti senza compromessi, che riteneva inammissibili. Su di lui è uscito due anni fa un film bellissimo, un vero capolavoro, del regista statunitense Terrence Malick, intitolato “La vita nascosta”.
Questi personaggi sono sempre attuali; erano uomini che volevano vivere, non erano affatto “votati al martirio”, ma non hanno accettato di mercanteggiare questa vita con delle menzogne, una zona grigia di indifferenza. Sono eccezionali testimonianze di come non si può, non si deve, rimanere indifferenti quando intorno a noi cresce il male. Sono uomini di grande coraggio civile, ancore di salvezza per tutti noi: ci chiedono di essere forti nella verità e nell’affermare i diritti.