Abbiamo in parte affrontato in questo articolo alcuni aspetti inerenti a questo delicatissimo argomento, ma la questione merita un dovuto approfondimento che proveremo a fare con onestà intellettuale
Nell’articolo abbiamo evidenziato quelle che sono le contraddizioni che riguardano la gestione da parte dello Stato di persone di origine straniera che considera “pericolose”, gestione che nei fatti non protegge la cittadinanza da questa presunta pericolosità. Aspetto che richiama più ad una retorica sull’indesideratezza da parte dello Stato degli stranieri che considera non meritevoli di permesso di soggiorno.
Le persone immigrate sono pericolose?
Nella lunga inchiesta che continuiamo a condurre sulle politiche migratorie italiane ed europee, nella quale i centri per i rimpatri sono parte integrante, abbiamo naturalmente parlato anche con avvocati, appurando che alcune delle persone che sono giunte in Italia e che sono sprovviste di un titolo di soggiorno valido, hanno profili penali di indiscutibile rilievo.
Occorre innanzitutto uscire da una logica eticamente e deontologicamente inaccettabile e su questo l’informazione deve necessariamente fare un attento esame di coscienza: una persona che abbia commesso un reato penale va considerata senza pregiudizio sul fatto che sia di origine straniera o italiana: ove ciò non avvenga siamo di fronte ad un indubbio processo discriminatorio.
Naturalmente l’argomento implica il vasto discorso concernente l’effettiva capacità di rieducazione del sistema detentivo italiano e la capacità di reinserimento delle persone che hanno pagato il proprio debito con la Giustizia, ma è un argomento che, seppure di estrema rilevanza, qui non affronteremo.
Una persona migrante senza un titolo di soggiorno valido e con precedenti penali: è giusto che sia detenuta in un CPR? E questo è un dibattito che occorre affrontare.
L’istituzione del visto d’ingresso, ove non utilizzato tout court come arma di limitazione della libertà di movimento della persona, è una prerogativa degli Stati. Prerogativa che può indiscutibilmente implicare la protezione dall’ingresso di persone che possono essere considerate un problema per la sicurezza dei cittadini, benché, e questo va detto, si sia visto ad esempio che la stragrande maggioranza degli atti terroristici avvenuti negli ultimi anni in Europa siano stati compiuti da persone nate in Europa, seppure in taluni casi rientrate dopo un periodo di permanenza all’estero.
A tal proposito il pensiero non può non andare a ciò che di peggio abbiamo esportato con l’emigrazione italiana: le mafie.
E’ certamente vero che con tutta probabilità un sondaggio sulla necessarietà del rimpatrio di persone prive di un titolo di soggiorno valido e con profilo penale rilevante, vedrebbe la maggior parte degli italiani d’accordo.
Ma il punto sostanziale è: per questo serve il CPR? La risposta è certa: no. Su questo ci rifacciamo alla raccomandazione della Garante di Torino, Dott.ssa Monica Gallo, che ritiene che “occorra identificare in carcere le persone lì detenute con decreto di espulsione”.
Il rimpatrio può quindi certamente essere effettuato dal carcere, detenzione, a detta di tutti, di gran lunga preferibile a quella nel CPR proprio per il sistema di garanzie, assente o quasi nell’istituto della detenzione a fini di rimpatrio, cosa peraltro ampiamente denunciata pubblicamente da associazioni, giuristi, dal Garante Nazionale delle persone private della libertà personale.
Cosa prevede invece attualmente l’ordinamento? Che per una persona considerata pericolosa per la sicurezza e l’ordine pubblico possa venire chiesto il rimpatrio forzato e che nell’impossibilità che questo avvenga con immediatezza (praticamente sempre), la persona sia detenuta con priorità (art. 14 comma 1.1 Testo unico sull’immigrazione) in un CPR.
Certo questa norma, introdotta nel 2020, non può non destare degli interrogativi riguardo ad una possibile sfiducia nella capacità da parte delle forze dell’ordine di prevenire il crimine sul territorio, prevenzione che viene attuata di fatto con la detenzione nel CPR, sebbene attraverso la richiesta di rimpatrio forzato.
La determinazione della pericolosità sociale è sostanzialmente prerogativa delle Questure, questo senza che ci sia di fatto un sistema di garanzie a bilanciamento di questa determinazione: a rigor di logica si tratta, in presenza di una “priorità”, di detenzione sulla base del sospetto, senza, come avviene nel sistema giudiziario, l’apertura di un fascicolo da parte della Procura, la trasmissione degli atti al GIP e un suo pronunciamento.
Più ampiamente la privazione di libertà, la detenzione a fini di rimpatrio, di fatto pone molti interrogativi sul criterio di proporzionalità della pena, come abbiamo scritto molte volte un italiano non finisce in carcere per aver messo la macchina in seconda fila, la detenzione nei CPR avviene per una violazione amministrativa. Questo aspetto diventa ancor più rilevante laddove ci sia un’applicazione estensiva e non straordinaria; misura cautelare che, ci dicono i dati, viene applicata in misura molto superiore ai rimpatri.
L’esercizio della detenzione nel CPR a fronte del sospetto di pericolosità sociale dalla persona non è regolato per legge, ovvero non è stabilito quali profili penali possano essere effettivamente “pericolosi” e la legge non stabilisce delle garanzie: ovvero non è espressamente regolata la possibilità di impugnare la decisione della pericolosità sociale e addivenire ad una sentenza con un contraddittorio adeguato.
Stante la normativa, da molti, e non da oggi stigmatizzata, una persona priva di un visto e di un permesso di soggiorno valido è illegalmente presente in Italia, ma il problema riguarda proprio “la pena” per questo applicata, ovvero la detenzione, la privazione di libertà in un CPR, che pone molti interrogativi anche laddove venga esercitata a fronte di profili penali rilevanti (ma i cui reati sono estinti dall’aver scontato una pena detentiva in carcere) senza un parere della Magistratura togata, ovvero senza che questo rientri di fatto nelle garanzie del sistema giudiziario italiano.
Non solo: l’oggettiva difficoltà nel rimpatriare rende contraddittoria questa misura, quindi laddove sussista davvero un profilo di pericolosità sociale, non c’è certezza dell’effettivo rimpatrio della persona: di fatto una non soluzione.
L’oggettiva difficoltà a rimpatriare attiene anche a chi non ha precedenti penali, ripetiamo: l’anno scorso più di 2.000 persone (e solo circa il 20% delle 4.387 persone detenute nei CPR nel 2020 proveniva da istituti penali) si sono viste private della libertà personale senza essere state rimpatriate.
Il rimpatrio come pena alternativa alla detenzione in caso di reato penale per chi è sprovvisto di un titolo valido di soggiorno è prevista dall’Ordinamento, questa sì decisa dal Magistrato (togato), ma è poco applicata.
Tutto ciò pone un’inevitabile e sconcertante conclusione: una persona migrante priva di un titolo di soggiorno valido gode delle stesse garanzie di legge di una persona italiana solo quando commette un reato penale ed entra nel sistema giudiziario dello Stato, per poi perdere questo “privilegio” a fine pena.