Vi presentiamo qui la sesta parte dello studio « Spunti per la nonviolenza » realizzato da Philippe Moal, in 12 capitoli. Alla fine dell’articolo trovate i link alle puntate precedenti.

I capitoli 6, 7 e 8 sono intitolati “Disconnessione, fuga e iper-connessione”. Il presente capitolo tratta in particolare il tema della disconnessione dalla violenza.

 

Mi rendo conto che mi disconnetto più spesso in modo selettivo, da una persona, da un argomento preciso, da una situazione: “Non voglio più sentir parlare di tizio, è un argomento che non voglio più affrontare”. Ma in ogni caso posso anche trovarmi in uno stato di disconnessione globale quando è tutta la mia coscienza a essere disconnessa.

In questo stato, le mie sensazioni legate alla percezione, per quanto sempre presenti, si bloccano, le mie rappresentazioni interne si fermano, come se le immagini che portano all’azione non facessero più il loro dovere. Mi rendo anche conto che le mie immagini mancano di tono e di chiarezza, e che la loro carica emotiva è neutra nel migliore dei casi, quando non è proprio negativa.

Senza entrare in una descrizione psicologica dettagliata, mi rendo conto che il registro[1]  che accompagna la disconnessione si esprime come un disinteresse per il mondo, un ripiegamento su me stesso e sui miei interessi personali, uno sguardo individualista sugli eventi, accompagnati da una mancanza di motivazione verso tutto ciò che è sociale, uno stato di vuoto emozionale in cui posso arrivare a non provare la minima compassione per gli altri, così come per la sofferenza, la miseria, le ingiustizie… fino a sprofondare in uno stato di indifferenza per tutto e a non sentire più alcun tipo di interesse. A poco a poco, mi allontano dai miei sentimenti e dalle mie idee, ossia da me stesso.

A parte il rischio di sprofondare in uno stato di non-senso esistenziale, e di interpretare ed esprimermi nel mondo in modo cinico e nichilista perché non credo più in niente, la sensazione che accompagna la disconnessione dalla violenza che vedo, che subisco o che provoco, mi fa ripiegare sui miei valori e sulle mie credenze, con il rischio che si rivelino essi stessi semi di violenza.

Posso essere disconnesso dalla violenza quando non vedo che è normalizzata e legittimata nella società, e di conseguenza non mi fa più effetto, e quindi ovviamente non faccio niente per evitarla. Posso essere ugualmente disconnesso dalla violenza nel momento in cui la giustifico per non ammettere che la sto provocando. Posso altresì essere disconnesso dalla violenza quando non posso sopportare le scene che vedo poiché, essendo troppo forti, sono insostenibili; allora cerco di ignorarle, di pensare a qualcos’altro, oppure mi butto freneticamente in un’attività per distogliere l’attenzione e dimenticare. Posso essere disconnesso dalla violenza quando, di fronte alle situazioni violente che si ripetono e si accumulano, mi indurisco, mi intorpidisco, mi anestetizzo, in modo da disconnettermi poco a poco, ma inesorabilmente, dalla violenza. Posso ancora essere disconnesso dalla violenza se non prendo in considerazione il fine delle mie azioni, quando queste possono generare violenza. Le situazioni che mi fanno disconnettere dalla violenza per cercare di evitarla sono varie, ma questo naturalmente non risolve il problema.

Smettere di interrogarmi sulle conseguenze delle mie azioni mi impedisce di connettermi ai registri che le mie azioni producono e questo può avere come effetto di rendermene complice. Può anche succedere che io provi un tale sentimento di impotenza e di incapacità a dare delle risposte alla violenza che la elimino dal mio campo di percezione. Non esiste più… almeno per me.

La maggior parte delle popolazioni vive nella disconnessione, che è diventata un valore: si gira la testa dall’altra parte per evitare di farsi coinvolgere, si ignora l’altro per non essere infastiditi anche noi, si fa come se niente fosse di fronte a un’ingiustizia, si crede di essere al di sopra di tutto ciò, ecc.

La disconnessione impedisce di vedere la violenza e di agire per estirparla, ma permette anche di esercitarla senza scrupoli, provocando le più orribili crudeltà, tra cui quelle che portano a uccidere a sangue freddo. La disconnessione dalla violenza è un adattamento decrescente al mondo così com’è; si è codificata e normalizzata, e induce a una sorta di sottomissione alle condizioni di vita violente in virtù delle quali ognuno può usare la violenza a sua volta ed esercitarla senza neanche rendersene conto.

Se l’uomo non si ribella davanti a una violenza causata a un altro, in definitiva rischia di conviverci come se fosse una fatalità. E convivere con la violenza non significa altro che essere indifferenti alla sofferenza e alle disgrazie dell’altro. Solo la compassione permette di riconoscere il dolore di cui soffre l’altro e comporta la volontà di essere al suo fianco per cercare di resistere alla violenza che lo umilia e lo schiaccia[2].

In uno stato di disconnessione, tuttavia, la coscienza invia segnali di allarme che indicano che c’è una contraddizione, una discordanza tra ciò che penso, ciò che sento e ciò che faccio. La filosofa Simone Weil esprimeva questo tipo di esperienza nel seguente modo: « La contraddizione è quella che strappa, che trascina l’anima verso la luce[3] ». Vedeva nella contraddizione il segnale che ci può aiutare a liberarci, a cambiare direzione e a cercare una via di uscita.

Ma dobbiamo ancora imparare a riconoscere questo segnale. Il neurologo Viktor Frankl propone una risposta a questo quesito all’interno delle sue ricerche sulla logoterapia, un metodo terapeutico rivolto verso il senso della vita: « La libertà dell’uomo consiste semplicemente, unicamente nello scegliere tra due possibilità: ascoltare la propria coscienza o non prendere in considerazione i suoi avvertimenti[4] ».

Quante volte ho sentito o percepito una voce interiore che mi diceva “Non farlo! Non andare lì! Non dirlo! ” … e l’ho fatto comunque, per poi constatare ogni volta che avrei dovuto ascoltarmi.

La disconnessione da se stessi porta anche alla cieca obbedienza ingiustificata. « Se non può fare altro che ubbidire, l’uomo diventa uno schiavo », scriveva Erich Fromm[5]. Poiché non mi riferisco più né a ciò che sento né a ciò che penso, è alto il rischio di dipendenza, come per esempio di sottomettermi a un’autorità malevola e obbedirle perpetrando le peggiori crudeltà. Nel corso della storia, enormi sofferenze sono state causate da uomini che obbedivano a degli ordini, come dimostra la filosofa Hannah Arendt nel suo Rapporto sulla banalità del male[6]In quest’opera la filosofa mette in evidenza che chiunque è capace di sprofondare nella peggiore delle violenze, dandone la colpa agli altri. La coscienza, in fuga di fronte all’inammissibile, elimina qualunque possibilità di autocritica.

Il concetto di disobbedienza civile, che è possibile solo se si è connessi con se stessi, porta a rifiutarsi di ubbidire davanti all’inammissibile, ma oggigiorno solleva parecchi dibattiti. I poteri cercano di mettere in discussione la sua legittimità, sicuramente perché mette il dito sui veri problemi. La disobbedienza all’ordine stabilito sembra essere l’ultima risorsa contro gli squilibri e le ingiustizie sociali creati dall’ordine economico.  Henri David Thoreau, da cui deriva l’espressione disobbedienza civile, sviluppò il concetto nella sua opera che porta lo stesso nome e che inizia con questa massima « Il miglior governo è quello che governa di meno ». Quest’opera era preceduta da una raccolta di cinque saggi intitolata Resistere che esortava a non cedere alla tentazione del lasciar fare[7].

D’altro canto, certe esperienze sono talmente difficili da processare che portano a una crescente disconnessione dal mondo, per il bisogno di evadere in maniera catartica dalle tensioni che hanno creato, oppure di rimuginare nel proprio immaginario le scene dolorose non ancora superate, che sono ancora ferite aperte.

Mi viene in mente che mio nonno paterno, che aveva vissuto delle scene raccapriccianti nelle trincee di Verdun durante la Prima Guerra Mondiale, non ha mai potuto integrare l’orribile esperienza del campo di battaglia mentre era in vita. Per il resto della sua vita, ha vissuto completamente disconnesso dalla realtà, spesso alcolizzato, in una sorta di fuga permanente da se stesso, una fuga da quelle immagini ossessive. Dietro alla sua pipa, ai suoi grandi occhiali di tartaruga, alla gentilezza e alla giovialità che lo mantenevano in vita, a nessuno sfuggiva la copresenza di quelle immagini orribili della guerra che lo ossessionavano, neanche a mia nonna ovviamente, che doveva provvedere ai bisogni della famiglia, mente dirigeva la scuola del villaggio di Festubert, nel nord della Francia.

La disconnessione è una specie di rifiuto di vedere la violenza che i miei sensi percepiscono o ricevono, o quella che creo. La violenza si colloca alla periferia del mio spazio di rappresentazione[8] e non permetto che mi raggiunga, né che mi penetri, sfuggendola come la peste, ed effettivamente finisco per non vederla più, non riconoscere le sue manifestazioni, né nella società né intorno a me, e neanche quella che mi appartiene e mi rende insensibile a tutto e a tutti.

Il fatto di osservarmi, di cercare di cogliere i miei propri registri, di osservare le immagini che percepisco, associate a quelle che mi rappresento interiormente, mi permette di prendere coscienza della mia disconnessione e delle conseguenze a cui mi può portare. Rendermi conto della mia propria violenza mi permette di vederla da un altro punto di vista e di demistificarla. Quando la osservo tranquillamente in me stesso, allora mi umanizzo.

Senza l’atto di riconoscimento della violenza, qualunque azione per eliminarla è vana; la connessione interiore con la violenza porta a rifiutarla, ad agire per combatterla e per attivare la solidarietà. Inoltre, cogliere il prima possibile la violenza nel momento stesso in cui si manifesta permette, ovviamente, di agire il più in fretta possibile per contrastarla.

La possibilità di lasciare che mi raggiunga e che mi tocchi nel profondo della mia cenestesi[9], col rischio di esserne io stesso influenzato, mi può fare soffrire. Questa scelta è più dolorosa che quella di essere indifferente, ma è la sola che non sia disumana, la sola che mi renda solidale con l’umanità dell’altro – che è anche la mia.

È importante vedere come ci si può connettere al registro della violenza senza identificarcisi, così da poterla contrastare senza essere intrappolato dalla sofferenza che provoca, argomento che affronteremo più avanti.

La strategia che consiste nell’aiutare altre persone a connettersi alla loro esperienza di violenza ha molto senso. In occasione di un seminario sulla nonviolenza nel corso del quale ogni partecipante era invitato a ricordarsi di una violenza personale vissuta recentemente, una partecipante, Maria, disse che non vedeva nessuna traccia di violenza nella sua vita presente. Gli altri non ci fecero caso e continuarono a confrontarsi sulle loro rispettive esperienze. A un certo punto, Maria riprese la parola e raccontò che aveva una vecchia amica che lavorava con lei nella stessa azienda. Poco tempo prima, la direzione dell’azienda aveva deciso di offrire la possibilità a una persona di andare in pensione in anticipo. Maria era sulla lista dei candidati, ma la sua amica aveva preso l’iniziativa di proporre alla direzione di dare a lei stessa il benefit. Senza dire niente a Maria, l’amica aveva lasciato l’azienda da un giorno all’altro. Questa situazione sul momento aveva sconvolto Maria, ma non ne aveva parlato con nessuno. Tutto a un tratto, durante il seminario, il ricordo di questa mancanza di onestà da parte della sua amica, il tradimento che aveva provato e il suo silenzio colpevole le erano apparsi come una grande violenza. Fino a quel momento era fuggita dalla situazione per non creare problemi con la sua amica. Questa riconnessione con la violenza che aveva subito le ha permesso di prendere coscienza della sua fuga e di rivalutare cosa voleva fare con questa esperienza dolorosa.

 

Note

[1] Registro : esperienza della sensazione prodotta da stimoli rilevati dai sensi interni o esterni, compresi i ricordi e le immagini, Autoliberazione, Luis Ammann, Edizioni Multimage 2002.

[2] Il coraggio della nonviolenza, Edizioni du Relié, Parigi, 2001, p. 111. Jean-Marie Muller, filosofo francese, direttore degli studi all’Istituto di Ricerca sulla risoluzione nonviolenta dei conflitti.

[3] Opere complete, Tomo VI, Gallimard, Parigi, 1997. Simone Weil (1909-1943), filosofa, umanista e scrittrice francese.

[4] Scoprire un senso nella propria vita con la logoterapia, J’ai lu 2006 (© 1988). Viktor Frankl, (1905-1997), neurologo e psichiatra austriaco, creatore della logoterapia, che prende in considerazione il bisogno di un senso nella vita e della dimensione spirituale della persona, altrimenti chiamata terapia esistenziale. Leggere anche La logoterapia : Teoria e praticaÉlisabeth Lukas, Edizioni Pierre Téqui, 2004.

[5] Sulla disobbedienza e altri saggi, Robert Laffont, 1982. Erich Fromm (1900-1980), sociologo e psicanalista umanista americano di origine tedesca, uno dei primi rappresentanti della scuola di Francoforte, è stato uno dei primi pensatori del XX° secolo a parlare dell’idea del reddito di base incondizionato.

[6] Eichmann a Gerusalemme. Rapporto sulla banalità del male, Gallimard, 1966. Hannah Arendt (1906-1978), politologa, filosofa, esperta di fenomenologia e giornalista tedesca naturalizzata americana, conosciuta per i suoi lavori sull’attività politica e il totalitarismo.

[7] La disobbedienza civile, Edizioni Mille et une nuits, 1996 – Resistere, Edizioni Mille et une nuits, 2014, Henry David Thoreau (1817-1862), filosofo e poeta americano che,  grazie ai suoi scritti e alle sue azioni, è considerato il padre del concetto contemporaneo di nonviolenza, e che influenzò in particolare Tolstoj, Gandhi e Martin Luther King.

[8] Spazio di rappresentazione: nuova teoria concepita da Silo e sviluppata nella sua opera Contributi al pensiero. Lo spazio di rappresentazione è una specie di schermo mentale sul quale vengono proiettate le immagini, create a partire da stimoli sensoriali, di memoria e di attività propria della coscienza in quanto immaginazione. In se stesso e oltre a servire da schermo di proiezione, è formato dall’insieme delle rappresentazioni interne del senso cinestesico. Viene registrato come una sorta di secondo corpo di rappresentazione interna. Autoliberazione, Op. Cit., p. 281. Vedere anche lo studio Approccio allo spazio di rappresentazione, Philippe Moal, agosto 2021, in corso di stampa.

[9] Cenestesi : Sensazione che si registra quando uno stimolo proveniente da un ambiente esterno o interno viene rilevato e modifica il tono del lavoro del senso che percepisce. Niente può esistere nella coscienza senza che sia stato rilevato dai sensi. Anche i contenuti di memoria e le attività della coscienza e dei centri sono registrati dai sensi interni. Ciò che esiste per la coscienza è ciò che le si manifesta, inclusa lei stessa, e siccome questa manifestazione deve essere stata registrata, diciamo che anche qui c’è una sensazione. La cenestesi fornisce dati relativi alla pressione, temperatura, umidità, acidità, alcalinità, tensione, rilassamento, ecc., e tutte le altre sensazioni provenienti dall’intracorpo. Registra anche il lavoro dei centri (emozioni, operazioni intellettuali, ecc.) nonché il livello di lavoro della struttura tramite indicatori come il sonno o la fatica. Infine, registra il lavoro della memoria e dell’apparato di registro.

 

Elenco dei capitoli e link ai capitoli già pubblicati:

1- Dove stiamo andando?
2- La difficile transizione dalla violenza alla nonviolenza.
3- Quei pregiudizi che perpetuano la violenza.
4- Oggi c’è più o meno violenza di ieri?
5- Le spirali della violenza.
6- Disconnessione, fuga e iper-connessione (a – Disconnessione).
7- Disconnessione, fuga e iper-connessione (b – Fuga).
8- Disconnessione, fuga e iper-connessione (c – iper-connessione).
9- Le diverse forme di rifiuto della violenza.
10- Il ruolo decisivo della coscienza.
11- Trasformazione o paralisi.
12- Integrare e superare la dualità e Conclusioni.

Traduzione dal francese di Raffaella Piazza. Revisione di Thomas Schmid.