Tanti e tante tra coloro che scendono in lotta contro il green pass, e non solo a Trieste, sono vaccinati e alcuni hanno anche il green pass. Già solo per questa ragione è sbagliato tacciare di egoismo chi si mobilita. I motivi della protesta sono diversi – a cominciare dal rifiuto dell’ordine dall’alto di non turbare in alcun modo l’ordinario svolgimento della produzione e del consumo – e certo non tutti allo stesso modo condivisibili. Ma abbiamo tutti il dovere di esplorarli, anche per reinventare dal basso i concetti di cura e di medicina di comunità.
E’ un errore tacciare di egoismo – o, peggio ancora, di “individualismo piccolo borghese”, proprio di chi si cura solo dei propri interessi, fregandosene degli altri –coloro che si sono mobilitati contro l’imposizione del green pass per accedere al lavoro o coloro che si sono schierati contro l’eventualità di una imposizione dell’obbligo vaccinale per il covid-19.
Caso mai, è vero il contrario: chi si vaccina lo fa innanzitutto per proteggere se stesso (cosa sacrosanta, che non chiamerei mai egoismo). Il fatto che ciò protegga anche le persone con cui si entra in contatto viene dopo. Chi rifiuta il vaccino sa benissimo di essere “meno protetto”: se contrae il Covid rischia di ammalarsi, in modo grave, in misura molto maggiore di chi è vaccinato (ormai lo sanno tutti, tranne i pochi che sostengono che il covid non esiste o che è una semplice influenza). E proprio per evitare di contagiarsi o di contagiare gli altri, i non vaccinati prendono in genere delle precauzioni, verso sé e verso il prossimo, molto più accurate di chi si sente sicuro perché ormai è vaccinato. Queste precauzioni sono possibili – anzi, andrebbero adottate da tutti finché il virus circola – non solo in famiglia e nella vita quotidiana, ma anche in fabbrica o in ufficio. So che prima del 15 ottobre in alcune aziende, dove non vige una disciplina da caserma, ci si era organizzati con turni, postazioni e incarichi, per consentire a tutti di lavorare in sicurezza anche con i colleghi non vaccinati. Ovviamente, senza alcuna garanzia assoluta di non contrarre il contagio e di non trasmetterlo. Ma quella garanzia non è assoluta neanche se tutti sono vaccinati.
A sgombrare il campo dalla tesi dell’egoismo bastano pochi fatti. Molti dei portuali scesi in lotta contro il green pass, e non solo quelli di Trieste, sono vaccinati e alcuni hanno anche il green pass. Sono scesi in lotta non certo “per egoismo”, bensì “per altruismo”: per permettere che anche i loro compagni non vaccinati possano lavorare. E quando è stato offerto, a loro e a tutti i portuali, di avere i tamponi gratis hanno detto no: o a tutti i lavoratori o niente. Un bell’esempio di solidarietà: di classe. Ma anche a mobilitarsi contro un eventuale obbligo vaccinale – ora come quattro anni fa, al tempo del decreto Lorenzin – non sono stati solo i cosiddetti “no-vax”, ma anche molte persone vaccinate che ritengono sbagliato quell’obbligo: si chiama “libera scelta”.
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Ora, se in presenza di un maggior rischio, della stigmatizzazione, della concreta possibilità di venir esclusi da lavoro e stipendio (in sostanza, venir licenziati) o di un regime costoso e logorante a base di tamponi, la mobilitazione ha preso un andamento così travolgente, è ovvio che le ragioni del rifiuto sono altre, diverse dal mero egoismo e che, senza doverle per questo condividere, vale la pena esplorarle.
La prima, valida solo per il rigetto del green pass, è di ordine giuridico: è una discriminazione nei confronti di alcuni cittadini. Se accettata, potrebbe ripetersi in molte altre occasioni. Ma sui luoghi di lavoro è un ricatto: o fai quello che nessuna legge prescrive, o sei fuori. Il contrario di ciò che succedeva al tempo del lockdown: o vieni a lavorare o sei fuori. La ratio è sempre la stessa: niente deve turbare l’ordinario svolgimento della produzione, dell’accumulazione del capitale. Così si potrà escludere dal lavoro – e licenziare – ogni lavoratore che non si adegui a qualsiasi prescrizione, anche non prevista dalla legge o dal contratto. I lavoratori hanno tutti i motivi per temere un dispositivo del genere.
Ma ci sono motivazioni anche più profonde. Per esempio, la convinzione che una intrusione chimica o molecolare nel proprio corpo, in particolare di una sostanza sperimentale non sufficientemente testata, come i vaccini anti-covid, possa alterare in maniera permanente l’equilibrio fisiologico. La questione è oggetto di un continuo dibattito: se alcuni vaccini hanno contribuito a liberarci da molte infezioni letali o debilitanti – non senza il contributo essenziale della sanificazione delle acque e di una buona alimentazione, perché in molti paesi le stesse infezioni continuano a serpeggiare nonostante i vaccini – la garanzia che essi non provochino “reazioni avverse” debilitanti o letali è oggetto di dispute; che invano si cerca di ricondurre a una contrapposizione tra “la Scienza”, che pretende di escluderlo, e “la stregoneria”, a cui vengono assimilate anche le osservazioni di tanti medici che esercitano con competenza e dedizione il loro lavoro.
Ma c’è di più: il vaccino è l’unica pratica medica senza diagnosi, uguale per tutti, che non tiene in alcun conto, se non molto superficialmente, delle specificità di ogni individuo: la sua costituzione, la sua storia clinica, la sua reattività, la sua condizione sociale e psicologica, il suo ambiente: l’opposto della “cura”, che prende in considerazione tutti questi fattori e che in molti casi, compreso questo del Covid-19, avrebbe potuto, se praticata in modo diffuso e personalizzato, individuare per tempo l’insorgere del male e prevenirne l’aggravamento, fino ai suoi esiti, in troppi casi, letali.
I vaccini si sono rivelati una gigantesca fonte di profitti per chi li produce, tra l’altro, grazie a cospicue sovvenzioni pubbliche e al fatto che gli stessi Stati che li hanno sovvenzionati accettano poi di pagarli uno sproposito, con questo escludendone dall’accesso la maggior parte del genere umano. Ciò lascia adito alla convinzione che questa sia destinata a diventare la forma prioritaria di sanità riservata alla maggioranza della popolazione; mentre una medicina sempre più personalizzata, sempre più tecnologica, ma anche sempre più costosa, sia sviluppata solo per chi può pagare. Convinzione rafforzata dal fatto che ormai si sa che questo virus continuerà a ripresentarsi in nuove varianti, insieme ad altri malanni del tutto simili di cui il degrado del pianeta lascia prevedere la prossima comparsa (era stata prevista anche questa; ma senza adottare alcuna misura preventiva. Meglio intervenire dopo, per far dipendere la salvezza dal proprio esclusivo rimedio).
Questo incontestabile dato di fatto fa da sfondo alle tante teorie complottiste che in esso hanno trovato facile quanto fallace “riscontro” e su cui si sono parzialmente innestati, con altrettanta facilità – anche in mancanza di un impegno a comprenderne e sostenerne le ragioni – folclore, bigottismo reazionario e anche nazismo. Ma irridere o condannare quelle convinzioni finisce per schierare chi lo fa dalla parte di chi dice: “Si fa così e basta”. E’ la cifra dell’attuale governo e di molti altri governi del mondo, che non hanno fatto niente per aprire una discussione – e impegnare i fondi del Recovery fund – sulle alternative che una medicina di comunità potrebbe offrire tanto al dilagare delle prossime e probabili infezioni, quanto alla predisposizione di nuovi presidi senza doverli mettere a punto in fretta e furia quando ormai il male si è diffuso.