Antonella Bellutti (Bolzano, 1968) fin da giovane ha una rapidissima carriera agonistica nell’atletica leggera. In pochi anni colleziona diversi record nazionali sui 100 e 400 ostacoli (e gli ostacoli non le mancheranno mai…). A 19 anni un incidente la ferma, il ginocchio non va a posto e dopo due anni di cure e tentativi la sua attività agonistica sembra finita. Invece, un po’ casualmente sale su una bici e nel giro di due anni vince la medaglia d’oro alle Olimpiadi ad Atlanta e dopo quattro anni, a Sydney, ripete l’impresa. Successivamente entra nel bob a due e nelle olimpiadi invernali si classifica settima. Tra le tante cose che ha fatto in seguito, l’ultima (per ora) è quella di candidarsi quest’anno alla presidenza del CONI.
Hai avuto una vita intensa…
Non mi posso lamentare, ho iniziato presto a fare tante cose e non ho più smesso; la grande svolta nella mia vita è arrivata quando, a 10 anni, ho incontrato lo sport; ha voluto dire tanto, ha rappresentato sia una modalità di realizzazione personale che di emancipazione rispetto ad una situazione familiare che non mi avrebbe potuto offrire tante possibilità di viaggiare, conoscere. È stato un incontro bello e fortunato che ha fatto unire talento, passione e opportunità.
Io penso che lo sport sia una possibilità, un’esperienza importante per la crescita personale, per lo sviluppo sociale, i benefici che apporta nel suo complesso (dall’educazione motoria, all’avviamento allo sport, allo stile di vita) sono tali per cui andrebbe considerato come un diritto costituzionale. Da molti anni si parla di inserire la parola “sport” nella costituzione, per poter poi attuare le politiche pubbliche a sua tutela. Invece siamo fermi: nelle scuole elementari le ore di educazione fisica non sono a carico di personale con titoli per farlo e con solo due ore ci poniamo nelle retrovie della classifica per nazioni virtuose in questo senso. Non esiste lo “sport scolastico” in modo che le associazioni sportive in orario extracurricolare possano fare regolarmente attività negli spazi delle scuole. Lo sport dovrebbe poter essere per tutti e tutte, poi magari per qualcuno ci può essere la parentesi agonistica, che si apre e si chiude all’interno di un contesto, che inizia prima e va avanti dopo. In Italia invece è difficile praticare sport e farlo senza fare agonismo; se poi si fa agonismo bisogna avere delle condizioni familiari che te lo permettano. Troppe variabili, spesso casuali o fortuite, perché questo percorso possa essere lineare, completo, sereno e alla portata di tutti e tutte.
Anche per questo, dopo 107 anni di gestione di un certo tipo da parte del Coni, mi sono candidata la primavera scorsa alla presidenza, prima donna nella storia a farlo. D’altra parte, durante il Covid, abbiamo avuto la conferma della “non cultura” sportiva e motoria in Italia. L’attività motoria è essenziale nell’essere umano, noi siamo un sistema di leve che, se non si muove, si arrugginisce e ci facciamo male. Oramai sappiamo bene come fin da piccoli lo sviluppo psico-fisico, la scoperta del sé e del mondo, la conoscenza, passi attraverso il corpo. Ci sono invece troppe cose che nel governo dello sport in Italia non sono chiare: si vive da una parte un’euforia generale per i risultati olimpici e si trascura la diffusione dello sport per tutti e tutte. Quel vertice dell’agonismo, talvolta chiuso in una nicchia artificiosa, vive distante dal bacino generale da cui dovrebbe attingere.
In questi ultimi decenni abbiamo visto un dilagare del calcio e una corsa di molte famiglie verso il mito del successo del proprio figlio. C’è qualcosa di malato in tutto ciò?
Malato è sicuramente il fatto che il calcio sia diventato qualcosa di avulso dalla realtà sportiva. Per fare un esempio: nell’ultima indagine psicosociologica per definire il profilo dell’atleta di alto livello, in Italia, i calciatori non sono stati neppure presi in considerazione, talmente sono un mondo a sé. Il calcio dovrebbe porsi qualche domanda su quello che è diventato e forse dovrebbero porsela anche i tifosi; la superlega e il caos che ne è seguito sono stati esemplari in questo senso. Le squadre sono delle SPA concentrate sul profitto, con scambi, passaggi spesso gonfiati, operazioni finanziarie, tanto che viene da chiedersi se i risultati poi siano limpidi o condizionati da tutto ciò. I diritti televisivi e il monopolio del calcio fanno il resto. La nazionale di volley ha vinto il titolo europeo e sui giornali c’era un trafiletto; per la squadra di calcio, che ha vinto il titolo equivalente, ci sono state pagine e pagine. Se non fosse un’offesa ad ingiustizie ben più serie, mi verrebbe da parlare di ingiustizia.
Insomma, l’ipocrisia è tanta… In questo momento il calcio per me non è uno sport, è un business. Servirebbe davvero una rivisitazione complessiva. Il calcio inoltre è uno dei pochi sport dove esiste il professionismo e quindi la possibilità di renderlo un mestiere, viverci e avere delle tutele. Infine, la sproporzione di visibilità che gli viene dedicata fa sì che molti ragazzini abbraccino questo sport, anche perché più facilmente praticabile: alcuni sport hanno talmente poche strutture per praticarli che diventa difficilissima la loro diffusione. Anche sul cosiddetto “indotto” ci sarebbe molto da dire: in altri Paesi altri sport fanno indotto, basta sostenerli.
Ricordo che tutti gli sportivi sono dilettanti, tranne gli UOMINI delle massime categorie di soli quattro sport: calcio, pallacanestro, ciclismo e golf. Questi sono professionisti, gli altri (e quindi tutte le donne) lo fanno “per diletto”.
Come hai vissuto i primi anni della tua vita agonistica, quelli in cui si rischia di sacrificare una vita “normale” da adolescente per una passione?
Lo sport per me è stata un’esperienza molto coinvolgente fin da subito, per i risultati che ho ottenuto. Ho sempre bruciato le tappe, facevo gare con la categoria maggiore, facevo prove multiple e allo stesso tempo ero forte nelle discipline singole quindi a volte facevo doppi o tripli campionati. Era anche molto gratificante, nel campo sportivo avevo molti amici, il mio allenatore era un secondo padre, quindi non ho sofferto per i sacrifici che d’altra parte c’erano. Certo che l’iperspecializzazione toglie un po’ il piacere e il ripetere ossessivamente la stessa cosa non aiuta. E poi la fatica di conciliare lo sport con lo studio: nella mia famiglia non c’erano deroghe, lo studio veniva prima. Quindi ricordo lunghe trasferte, ritorni alle 4 di mattina per poi andare alle 7 a scuola, insegnanti comprensivi, altri meno, c’era una prof di italiano che, vedendo il mio nome sul giornale, mi interrogava tutti i lunedì… Nel complesso dico che c’è stata tanta gioia nel fare tutto. La gioia è venuta meno quando mi sono fatta male al ginocchio, a 19 anni: lì mi è crollato il mondo addosso. Lì ho capito quello per cui battaglio ancora adesso: cercare di spiegare come con sport così precoci e iperspecializzanti, non si possono non avere tutele. Non è possibile essere scaricati, dimenticati, dopo che ci si fa male e che della cura si debba occupare solo la famiglia. In due parole: l’atleta a fronte di un impegno totale, non ha alcun tipo di tutela. Si cerca di ovviare con i gruppi sportivi militari, ma questa è una possibilità, non può essere la soluzione. Tantopiù che la loro esistenza costa 35 milioni di euro l’anno (di denaro pubblico).
Sollevarsi dopo l’incidente per me è stato durissimo, da “campionessa” che ero, sui giornali, con successo, a più nulla. Mi dedicai allo studio, finii l’università e iniziai a lavorare, la vita poteva essere bella anche senza gare. Superare tutto ciò credo che mi fortificò, fu da lì che nacque la mia seconda vita sportiva. Un giorno comprai una bici di seconda mano e cominciai a uscire con mio fratello, ero parecchio depressa. Trovai subito una facilità incredibile a pedalare e non mi faceva alcun male. Per fatalità, un giorno, pedalando, superammo due responsabili del Trentino del ciclismo su pista. Mi hanno riconosciuta, mi hanno cercata e mi hanno proposto di correre in bici su pista: inizialmente non ne volevo sapere, ma mi hanno corteggiato a lungo e alla fine ho accettato. La pista mi richiamava molto l’atletica, sia per lo spazio fisico che per la “misurabilità” delle discipline.
Certo che questa volta avevo molta più consapevolezza su come destreggiarmi in questo crinale tra l’atleta e la persona, tra gli sforzi e il recupero, tra la performance e la vita quotidiana. Quel trauma superato mi fece crescere molto da questo punto di vista ed ebbi sicuramente più equilibrio e maturità nel gestire questa nuova fase di agonismo. Nel giro di due anni vinsi le olimpiadi di Atlanta del 1996.
Dopo aver vinto anche a Sidney, nel 2000, a 32 anni decisi di lasciare l’attività agonistica, anche perché il ciclismo su pista femminile (dove in Italia le piste sono inesistenti e quindi devi viaggiare spesso) rispetto a quello maschile vede una sproporzione pazzesca tra carico di lavoro, impegno e quantità risibile di gare, competizioni, nel corso dell’anno.
E poi ci fu il bob a due.
Mi chiamarono dalla federazione sport invernali per farmi questa proposta: nel 2002 avrebbe debuttato il bob a due femminile, volevano che io mi unissi a Gerda Weissensteiner, campionessa olimpica di slittino, e facessimo una coppia altoatesina “già pluri-medagliata”. C’era tutto questo programma, guardando anche a Torino 2006. In un primo momento io non me la sentii proprio, ma fu Gerda, che già conoscevo, a convincermi. Mi portò a vedere una gara: rimasi sconvolta dal rumore che provocava il tutto. Non era per nulla facile, la velocità è formidabile, 130 all’ora in certe curve, la pressione è altissima e se ti cappotti è un’esperienza terribile, ti devi tenere con le mani a due ferri del telaio e continui la corsa a testa in giù, dopo il traguardo c’è la salita di frenata e sali e scendi e sali e scendi fino a che non ti fermi per inerzia: è infernale. Io non ne volevo sapere, ma lei non mi ha mollato fino a che ho ceduto.
Peccammo anche di presunzione, pensavamo che ci sarebbero stati pochi equipaggi e magari ci scappava pure una medaglia, in realtà già nelle qualificazioni passammo per poco. C’erano molti equipaggi e ben più attrezzati di noi: arrivavano con camion che scaricavano i bob tramite pedane elettriche; il nostro bob (per il quale non avevamo differenti pattini da cambiare a seconda delle temperature del ghiaccio) viaggiava su un camion della frutta, dovevamo tirarcelo giù a braccia e pesava! C’era davvero da vergognarci. Ci siamo salvate coi risultati, imparando in fretta.
Io ero la frenatrice ovvero colei che doveva spingere a più non posso il bob ma il terrore che Gerda non riuscisse a salire al volo e io mi trovassi da sola in quell’aggeggio penso non mi abbia mai permesso di dare veramente il massimo … Ci siamo cappottate una volta e io le ho detto: “Gerda, non so se ce la faccio di nuovo…” Quando ci cappottammo una seconda volta giurai che se ci fosse stata una terza avrei mollato, fortunatamente non c’è stata. Alla fine, siamo arrivate settime all’olimpiade e, visto da dove eravamo partite, possiamo dire che è stato un successo.
E dopo?
Lasciato l’agonismo ho fatto tante cose, sono stata eletta nella giunta nazionale del Coni e ho vissuto a Roma dal 2001 al 2005, sono stata commissario tecnico della squadra nazionale di ciclismo maschile e femminile, sono stata in varie commissioni ministeriali, responsabile del settore volontari nel comitato organizzatore delle universiadi 2013.
Sono sempre arrivata ad un punto in cui mi sentivo un meccanismo all’interno di un ingranaggio che andava in una direzione contraria alla mia, quindi dopo un po’ non reggevo, non tolleravo. A quel punto mi sono dedicata all’insegnamento, ho lavorato 10 anni nel liceo ad indirizzo sportivo di Bolzano e come consulente all’università di Trento per progetti sulla doppia carriera e sullo stile di vita sano e attivo. Ma sempre si arrivava al punto in cui si avvertiva che in Italia lo sport non è una cosa seria: molti “forse”, “più avanti”, “non si può”…, e poi lo sport usato per altri fini.
Negli ultimi anni Antonella ha risistemato una bella locanda ereditata e l’ha trasformata in un luogo di grande accoglienza. Per sette anni, specializzandosi in cucina vegana, ha gestito questo luogo con la sua ex compagna, ha sfidato tutti i luoghi comuni e i pregiudizi ed è andata bene. Anche in seguito al Covid, ha poi dovuto lasciarlo; ora vive nei pressi di Roma, da dove continua un lavoro tra il culturale e il politico, sulla scia del movimento che l’ha appoggiata nella candidatura alla presidenza del Coni. Come una pantera, acquattata, aspettando di entrare in quei palazzi romani dove la polvere regna sovrana.
Da 10 anni è testimonial e attivista per Assist, associazione nazionale atlete, che fa un grande lavoro di ponte tra le esigenze delle atlete e le istituzioni. Dopo un primo invito a candidarsi 5 anni fa alla presidenza del Coni, l’anno scorso si è imbarcata in questa nuova impresa. Ha fatto molto scalpore il fatto che – prima volta nella storia del Coni – una donna si candidasse alla presidenza. Intorno a lei si è creato un importante nucleo di riflessione e proposta, tanto che il suo programma lo stanno tagliando e incollando in molti uffici di dirigenti sportivi. Il suo gruppo ha messo sotto i riflettori problemi di cui la dirigenza sportiva non si può più disinteressare. Questo le fa comunque piacere, le cose si muovono, in maniera molto lenta e indiretta, ma lei ha pazienza. Per la prima volta c’è stato un dibattito pubblico sulle elezioni nel Coni, che rimane ancora un feudo autoreferenziale, frutto di un modello che lei stessa definisce capitalistico, patriarcale, paternalista. Chiude così l’intervista: “Continueremo a pungolare chi comanda a tenere la barra a dritta, ad occuparci di questioni vere e urgenti, lasciando perdere vecchi problemi che non sono più attuali. Bisogna lavorare sull’ordinario, e solo dopo sullo “straordinario”.
Le chiedo se, viste le recenti lotte dei lavoratori dello spettacolo, ci siano analogie tra le scarse tutele degli uni e degli altri.
“Si -dice- tanto che ad un certo punto sembrava che i lavoratori dello sport potessero rientrare nella cassa previdenziale dei lavoratori dello spettacolo. Per gli atleti c’è anche l’aggravante che la carriera finisce presto, ai 35, 40 anni. Entrare a quel punto nel mondo del lavoro è ben complicato. E tutto questo se la tua carriera di atleta va bene, se invece si verificano incidenti i problemi sono doppiamente seri. Rimane poi la forte crisi di identità, una volta finita la carriera, dopo che sei sempre stato qualcosa, un atleta appunto, che ora non sei più. Ciò che fa soffrire è assistere al paradosso di uno strumento così ricco di valori e quello che io definisco “un’officina di disadattati”: come è possibile che qualcosa che può fare così bene generi disagio? Sport e disadattamento non dovrebbero convivere.
Vieni dal Trentino-Alto Adige: è davvero un’isola felice?
Diciamo che i soldi aiutano: costruire impianti, avere progetti aiuta, ma non è sufficiente, è importante anche una buona gestione. Figurati che essendo io altoatesina e avendo poi vissuto in Trentino noto grandi differenze già tra le due province. Probabilmente ci sono più modelli virtuosi al Nord perché ci sono più risorse, ma c’è un disagio che è alla base: dobbiamo lavorare sulla cultura, sull’educazione, altrimenti il meccanismo virtuoso non si innescherà mai. Se mancano impianti non è detto che non si possa fare nulla; per esempio, se nel Centro-Sud ci sono meno impianti, a maggior ragione ci devono essere buoni insegnanti e istruttori, persone formate bene, che sappiano sopperire con le loro conoscenze a ciò che l’assenza di strutture non consente. Il movimento si può fare e promuovere in qualsiasi condizione. Ovvio che se ci sono anche gli impianti è meglio. Direi che in Italia il problema esiste su tutto il territorio. Bisogna che scuole e associazioni sportive interagiscano e siano al centro del sistema sportivo. C’è da dire che il settore pubblico in tutto ciò deve essere trainante: in Francia, per esempio, alle famiglie non costa nulla far fare sport ai propri figli. Un bene prezioso come lo sport deve essere difeso da politiche e da finanziamenti pubblici.