Quando Giorgio Parisi nei giorni scorsi ha ottenuto il Nobel per la fisica i grandi media e il mondo politico sono stati giustamente generosi di apprezzamenti e lodi. Un importante e creativo scienziato, attivo in laboratori e atenei italiani, veniva gratificato di un riconoscimento prestigioso, inorgogliendo il paese. Passati pochi giorni, ecco Parisi ospite di un’aula parlamentare: il suo discorso tocca i temi cruciali del nostro tempo, in testa la crisi climatica in corso. Il giudizio di Parisi sullo stato della lotta al riscaldamento globale è tanto chiaro quanto argomentato: i governi – dice in sostanza – non si stanno dimostrando all’altezza, anche per un difetto d’impostazione generale: l’obiettivo di aumentare il Pil, sostiene il neo premio Nobel, è incompatibile con la lotta ai cambiamenti climatici. In altre parole, un’economia votata alla crescita di produzioni e consumi non può conseguire gli obiettivi indicati dagli studiosi del clima e dagli stessi accordi di Parigi sul contenimento della temperatura terrestre.
Parisi non è un economista e forse proprio per questo riesce a contraddire il discorso corrente: il fisico insignito del Nobel è come il bambino che osa dire ciò che tutti vedono ma tacciono: è la favola del Re nudo. L’intervento di Parisi in parlamento, nemmeno a dirlo, non guadagna né le prime né le pagine interne dei giornali, se non in innocui trafiletti; non fa breccia in radio e telegiornali. Chi pubblica un resoconto, sulla carta stampa, lo affianca – involontaria beffa – alle trionfalistiche dichiarazioni del ministro Renato Brunetta, secondo il quale l’imminente interruzione del telelavoro nelle amministrazioni pubbliche porterà un significativo aumento del Pil. È l’economia dei tramezzini trangugiati in pausa pranzo nella tavola calda sotto l’ufficio e delle code per strada e in cerca di parcheggio sempre sotto l’ufficio. Tutto – per l’appunto – fa Pil, e quanto al resto pazienza.
Quando si parla di cambiamenti climatici, Accordo di Parigi, Cop 26 (e poi 27, 28 e quelle che verranno), quando si parla di transizione ecologica e di sviluppo sostenibile, manca regolarmente uno degli attori principali sulla scena, se non il capocomico: l’ideologia della crescita, ciò che il bambino-Parisi ha indicato nel suo discorso in parlamento sul re-lotta ai cambiamenti climatici. Non è cioè possibile perseguire l’obiettivo indicato dagli scienziati e dagli accordi sul clima – contenere il riscaldamento globale sotto la soglia di +1,5 gradi rispetto all’era pre industriale – perseguendo al tempo stesso l’obiettivo di far crescere il Pil anno dopo anno. Per cambiare rotta e tentare seriamente di frenare la catastrofe climatica in corso occorre abbandonare non solo obsoleti strumenti di misurazione come il Pil, ma la stessa ideologia sviluppista tuttora dominante.
In un articolo uscito su una rivista scientifica e tradotto da Scienza in rete, Alessandro Gimona affronta (qualche settimana prima dell’assegnazione del premio Nobel) proprio la questione evocata da Parisi: la decrescita. Eccolo, il concetto tabù: rifiutato dagli economisti, deriso dal personale di governo d’ogni colore e di conseguenza dal giornalismo mainstream (notoriamente incapace di dettare una propria agenda alla politica). Il ragionamento di Gimona è lineare. Gli attuali impegni di riduzione delle emissioni, osserva, porterebbero a un aumento della temperatura di 2,7 gradi o forse più, praticamente il doppio dell’obiettivo dichiarato, con effetti disastrosi sugli ecosistemi e le popolazioni.
D’altra parte, gli scenari ipotizzati in sede scientifica e che potrebbero portare al risultato sperato senza rivoluzionare il sistema economico, si basano su soluzioni tecnologiche del tutto ipotetiche (cattura e stoccaggio di anidride carbonica, mitigazioni ambientali, rapidissima transizione energetica), qualcosa – potremmo dire – che si avvicina al pensiero magico, e questa è grosso modo la strategia politica attualmente prevalente, poiché si ritiene di non poter uscire dal paradigma della crescita di produzioni e consumi per una serie di regioni sociali, politiche, in ultima istanza ideologiche.
Poi c’è lo scenario della decrescita, che l’IPCC – il network di scienziati che sotto l’egida delle Nazioni unite studia i cambiamenti climatici – non ha finora preso in considerazione, come osserva Gimona. Secondo l’autore tale scenario “sarebbe molto meno rischioso dei percorsi che si basano solo sulla rimozione su larga scala dell’anidride carbonica e sulla transizione su larga scala e in tempi brevi verso le fonti rinnovabili”. In aggiunta, dice ancora Gimona, la decrescita sarebbe l’opzione migliore “per affrontare molteplici aspetti della crisi ambientale, rendendo la società più equa“. Gimona non si nasconde che “la decrescita presenta dei problemi: richiedendo una riduzione del Pil, la sua accettabilità e fattibilità politica sono tutt’altro che scontate”, ma osserva – sensatamente – che “nonostante le perplessità e i dubbi sollevati dall’economia mainstream, che non ammette planetary boundaries (confini planetari, cioè limiti fisici) e della crescita esponenziale non può fare a meno, la decrescita è chiaramente un candidato degno di considerazione”.
Eppure, non esiste nemmeno un dibattito sul tema. Il solo termine decrescita suscita irritazioni; ne sa qualcosa Serge Latouche, che ne scrive da decenni e viene considerato grosso modo un pittoresco e anacronistico utopista. È vero – come sa bene chiunque abbia mai affrontato seriamente il tema – che l’opzione della decrescita ha qualcosa di rivoluzionario e comporterebbe una forte trasformazione sociale, con l’abbandono – insieme alla dittatura del Pil – della logica consumistica e il passaggio a un nuovo paradigma tutto da costruire, con nuove nozioni di lavoro e di benessere. Come non si è mai stancato di ripetere proprio Latouche, la decrescita in una società della crescita è la peggiore delle sciagure, ed è proprio questo il punto: si tratta di cambiare approccio, di ridefinire ciò che intendiamo per economia.
Ne abbiamo fatto qualche piccola, dolorosa esperienza, all’inizio della pandemia, per esempio quando si è cominciato a distinguere fra lavori (e quindi consumi) essenziali e no o si è ridotta drasticamente la mobilità delle persone (spesso superflua o evitabile); si tratterebbe stavolta di costruire un progetto di società senza la costrizione del contagio, ma col pensiero – questo sì – del tempo che manca, viste le precarie condizioni di salute del pianeta e anche delle nostre società.
Troppo difficile? Troppo ambizioso? Forse. Ma ormai necessario, se non vogliamo restare chiusi nella bolla dell’eterno rinvio, nel greenwashing permanente, nella finzione della lotta al cambiamento climatico attraverso l’aumento del Pil. Non è impossibile. Dopotutto proprio Giorgio Parisi è stato premiato col Nobel per i suoi studi sul dominio del caos e la semplificazione dei sistemi complessi…