Oltre nove mesi fa, i sindacati degli agricoltori hanno unito le forze  per protestare contro le tre leggi agricole approvate dal governo Modi e imposte ai governi dei vari Stati della Confederazione. Sfidando idranti, manganelli, gas lacrimogeni, blocchi, i manifestanti hanno raggiunto la periferia di Delhi nel novembre 2020, mentre il 26 gennaio 2021 400.000 trattori e un milione e mezzo di agricoltori sono arrivati nelle vicinanze della capitale, in occasione della Festa della Repubblica. Da allora portano avanti una protesta pacifica e molto partecipata.

La mobilitazione ha visto fra i protagonisti ben trentadue organizzazioni agricole dello Stato del Punjab, come BKU Rajewal, BKU Siddhupur, Kirti Kisan Union, BKU Lakhowal, BKU Dhakaunda, BKU Qadiyan; alcune dello Stato dell’Haryana, come BKU Chaduni, e dello Stato dell’Uttar Pradesh, come BKU Tikait. Protagoniste inoltre diverse organizzazioni pan-indiane che nel 2017 avevano formato il comitato di coordinamento All India Kisan Sangharsh: AIKMS, AIKM, AIKS Canning Street, AIKS Ajoy Bhawan, AIKKMS, NAPM, Shetkari Kisan Sangathan, Lok Sangram Manch, Jai Kisan Andolan, KRRS Chandrashekar, KRRS Chamrasa Patil e Nagendra, e i membri del Rashtriye Kisan Mazdoor Sangh, cje sono tra gli ideatori dell’attuale protesta a Delhi.

Le tre leggi oggetto della protesta sono: 1) Legge sullo scambio e sul commercio dei prodotti agricoli, 2020; 2) Accordo agricolo sulla garanzia dei prezzi e sui servizi agricoli, 2020; 3) Legge sui prodotti essenziali (emendamento), 2020.

Le leggi estendono la portata delle aree commerciali dei prodotti agricoli a “qualsiasi luogo di produzione, raccolta e aggregazione”, consentono il commercio elettronico dei prodotti agricoli, vietano ai governi statali di riscuotere le tasse di mercato in aree private, forniscono un quadro giuridico perché gli agricoltori possano stipulare contratti prestabiliti con gli acquirenti, compresa l’indicazione dei prezzi, offrono un meccanismo di risoluzione delle controversie, vietano la regolamentazione delle scorte di derrate essenziali e aboliscono il limite alle scorte sui prodotti agricoli, consentono un forte aumento annuo dei prezzi di oltre il 50% sui cereali a uso alimentare e del 100% su frutta e verdura, danno il via libera al mercato nero degli alimenti.

Il primo ministro Narendra Modi ha definito i progetti di legge uno spartiacque; con il suo governo, sostiene che le leggi consentiranno agli agricoltori di vendere più facilmente i loro prodotti ai grandi acquirenti.

Ma gli agricoltori spiegano da mesi che queste leggi sono contrarie ai propri interessi e favorevoli solo a quelli delle grandi imprese o corporations. La controversia ruota attorno ai seguenti elementi: la perdita del diritto di decidere cosa coltivare, la perdita di ogni garanzia da parte del governo circa i prezzi minimi di sostegno (Msp) e infine la perdita totale del potere contrattuale.

La protesta continua con slancio, rimanendo pacifica nonostante gli abusi della polizia e la disinformazione propagata dal governo nel tentativo di sedare la “rivolta”. Il fatto che la mobilitazione degli agricoltori sia rimasta ferma nelle proprie convinzioni ne fa un fenomeno storico.

I giornalisti di Pressenza hanno intervistato gli attori chiave di questa lotta pacifica senza precedenti per comunicare una comprensione più profonda e un contesto più ampio riguardo alle motivazioni che spingono gli agricoltori indiani a essere così fortemente contrari alle tre leggi. Questo articolo è il frutto di un dialogo con il dr. Ashish Mittal, Segretario Generale di All India Kisan Mazdoor Sabha, AIKMS.

Il contesto più ampio della protesta: l’India è un’enorme economia agricola

L’agricoltura in India occupa la maggiore superficie a mondo, circa 141 milioni di ettari, più della Cina, del Giappone e degli Stati Uniti. E coinvolge ben 700 milioni di persone, direttamente dipendenti da questa attività. Sono in ballo la questione di sicurezza alimentare per l’India e il suo popolo, e i mezzi di sussistenza di chi coltiva. Quindi, abbiamo un doppio problema. Se cediamo tutti i nostri prodotti e processi agricoli alle grandi società, cosa succede a queste persone? Cosa succede all’agricoltura? Cosa succede al cibo? Ecco come è nato il movimento.

Le tre leggi in questione sono un attacco consolidato e totale a tutti gli aspetti dell’agricoltura e dell’alimentazione: fornitura degli input, servizi, processi agricoli, acquisto di derrate, mercati agricoli, conservazione degli alimenti, selezione, imballaggio, lavorazione e commercializzazione degli alimenti.

Era naturale che ci sarebbe stata una grande rivolta. La quale è stata ed è più ampia di quanto il governo potesse prevedere; si credeva che la minaccia del coronavirus avrebbe fatto da deterrente. Gli agricoltori hanno sfidato la minaccia, mobilitandosi per denunciare il lockdown come antidemocratico e contemporaneamente sollevando I pericoli contenuti nelle tre leggi.

Il dibattito ruota intorno a questo: l’agricoltura, gli agricoltori contro le multinazionali e le grandi aziende, interessate a controllare tutti i processi. I prpduttori agricoli sono già soggetti alle manovre dell’agribusiness, ma il controllo non è ancora interamente nelle mani di quest’ultimo. Ecco la vera sfida espressa nelle tre leggi, che il governo centrale impone agli Stati membri della Federazione indiana.

L’agricoltura in India ricade nella competenza dei goveri dei singoli Stati. Ma la madre delle tre leggi, il Contract Act, sancisce una applicazione rigorosa delle sue disposizioni: I governi statali dovranno eseguire le direttive via via predisposte dal governo centrale. È un cambiamento molto grande quello che l’amministrazione Modi sta cercando di introdurre.

Nella storia dell’India, l’unico periodo paragonabile a nostro avviso è la prima guerra di indipendenza del 1857. I colonialisti britannici stavano cercando di cambiare l’intero modello agricolo sviluppando colture commerciali nel loro interesse. Gli agricoltori dovettero adattarsi, ma a scapito della possibilità di coltivare cibo per il fabbisogno locale.

Le tre leggi: cosa significano per i contadini

La Contract Law prevede che tutto ciò che gli agricoltori producono deve essere venduto alle aziende, e molto di più.

Implica che le corporations vincoleranno gli agricoltori con contratti ad hoc, obbligandoli a produrre ciò che vogliono loro, e verranno delimitate aree geografiche destinate a produrre, per le corporations, colture specifiche. L’India ha una quantità di aree agro-climatiche molto diverse, adatte a un’ampia gamma di colture, appetibili per le corporations. In queste aree, il governo e le grandi aziende imporranno le colture, come consentito dalle nuove leggi, sotto la bandiera dello sviluppo del settore agricolo indiano. Nello Stato dell’Uttar Pradesh è stato diffuso un annuncio: un distretto-una-coltura-un’azienda. Ciò significa che l’intero distretto potrebbe essere destinato, poniamo, alla coltivazione delle banane. Cosa accadrà agli agricoltori?

Le multinazionali non vengono qui per il grano e il riso, ma per coltivare derrate commercialmente lucrose, da trasformare e vendere. E per questo ricorrono all’agricoltura coatta. La coltivazione sarà fatta in maniera obbligata dall’agricoltore sulla sua stessa terra. Il rischio rimarrà sulle sue spalle, mentre il profitto sarà per l’azienda. Con queste leggi, se a un distretto viene ordinato di produrre una certa coltura, occorre obbedire.

Il paragrafo 16 del Contract Act afferma che il governo centrale impartirà istruzioni/ordini di volta in volta ai governi statali al fine di garantire una rigorosa applicazione di questa legge. Quindi, stipulare un contratto sarà obbligatorio. Non è una scelta. L’azienda ti obbligherà, ti costringerà, la polizia ti dirà che sei costretto a fare quella coltivazione perché, se non lo fai, non corrispondi “all’interesse nazionale”. Una politica che viene sollecitata in nome della crescita nazionale, un programma venduto come iniziativa per rivitalizzare l’economia del paese. E’ scritto nella legge chiamata Price Assurance Act.

I primi tre Stati nei quali gli agricoltori si sono mobilitati

In India dipendono dall’agricoltura 700 milioni di persone. E il modello principale è l’agricoltura di sussistenza. Le persone coltivano ciò di cui hanno bisogno per mangiare. E, a seconda dei loro mezzi, coltivano un po’ di più, per vendere. Il Punjab è insorto per primo, seguito dall’Haryana e dall’Uttar Pradesh occidentale, dal Rajasthan e poi da altri Stati. Perché? Il Punjab è uno Stato in cui il surplus agricolo è relativamente più elevato rispetto ad altre zone. Ciò significa che, su un acro di terra, se nel resto del paese si raccolgono venti quintali di grano, nel Punjab si può arrivare a quaranta quintali. Se un’unità agricola ne tiene per sé dieci quintali, i quintali da vendere sono dieci in media nel paese, mentre in Punjab sono trenta, il triplo. È anche importante notare che il Punjab è un’area in cui gli agricoltori riescono a ottenere il prezzo determinato dal governo (Msp). Il prezzo stabilito dal governo per il grano quest’anno è stato di 1975 rupie al quintale, mentre nel resto dell’India si vendeva a 1400 rupie al quintale. Un agricoltore del Punjab riesce dunque a vendere trenta quintali di grano per quasi 2000 rupie al quintale, nel resto del paese invece gli agricoltori riescono a vendere solo dieci quintali, al prezzo di 1400 rupie al quintale.

L’agricoltura come processo vitale e mezzo di sussistenza, fonte di reddito e fonte di occupazione, ha molto più valore per un agricoltore del Punjab che per il resto del paese.

È anche importante comprendere che l’India rimane un paese semifeudale e semicoloniale. L’economia indiana è ancora nelle mani di aziende straniere. La natura feudale, inoltre, si esprime tuttora con il lavoro forzato e la scarsa remunerazione della manodopera. Questa struttura semifeudale dei villaggi continua a prevalere in varia misura in tutto il paese. Per questo c’è molta migrazione di manodopera dai villaggi alle città.

La manodopera agricola che vive nei villaggi del Punjab, dell’Haryana e dell’Uttar Pradesh occidentale riesce a trovare impieghi nelle città e poi torna a svolgere lavori agricoli durante le stagioni della raccolta e della semina. In Punjab, Haryana e Uttar Pradesh occidentale sono presenti lavoratori migranti che non riescono a trovare lavoro nel resto del paese. Ecco perché queste aree geografiche si sono opposte per prime alle tre leggi.

La rabbia è così profonda che gli agricoltori continuano la loro protesta intorno alla capitale. Sono molto decisi a continuare fino a quando il governo non cederà. Sono pazienti e pacifici. Ci aspettiamo che il movimento continui a crescere così. Sta crescendo. Le cose iniziano ad accelerare nel resto del paese.

E’ utile far notare che da molte comunità agricole continuano ad arrivare, a titolo gratuito, cibo e altre forniture per far fronte alle necessità degli agricoltori accampati nelle principali aree della protesta intorno a Delhi. Questa solidarietà, radicata nella tradizione indiana della condivisione, è anche indice di un forte sostegno ai manifestanti.

Come tutti possono vedere, la protesta si sta allargando. Proseguirà.

La seconda parte di questa serie di articoli approfondirà altri aspetti della protesta degli agricoltori indiani, con le loro richieste e proposte, la risposta del governo Modi e il sostegno politico e internazionale.

Traduzione dall’inglese di Simona Trapani

revisione di Marinella Correggia

L’intervistato

Il dottor Ashish Mittal ha conseguito la laurea in medicina e chirurgia presso l’All India Institute of Medical Sciences (Aiims) nel 1982. Ha studiato medicina comunitaria e in seguito è entrato a far parte del movimento degli agricoltori. È tra i fondatori di All India Kisan Mazdoor Sabha (Aikms) e ne è diventato il segretario generale nel 2016. Aikms lavora principalmente tra i contadini poveri e senza terra, i tribali e i pescatori nei seguenti Stati: Punjab, Telangana, Andhra Pradesh, Odisha, Bihar, Uttar Pradesh, West Bengal focalizzandosi sui mezzi di sussistenza, sugli spostamenti forzati e sulle questioni economiche dei contadini.