Alla manifestazione dedicata ai paesi più poveri del mondo le voci delle diaspore, con l’Afghanistan in primo piano.
“No ai talebani, no all’imperialismo”: un videomessaggio delle donne di varie nazioni, dalla Tunisia al Marocco, dal Mozambico alla Palestina e fino a Cuba, ha segnato all’università di Tor Vergata di Roma la terza e ultima giornata di ‘The Last 20‘, una manifestazione dedicata ai paesi più poveri del mondo. “Grazie alle lotte del passato abbiamo i diritti stampati nella Costituzione, ma nella pratica continuano a non essere applicati”, ha detto Eulalia Guiliche, rappresentante della comunità mozambicana in Italia. “Ci sono ancora battaglie importanti da fare: dalla politica alla parità salariale“.
La poetessa maliana Mah Aïssata Fofana, collegata da Bamako, ha sottolineato invece i miglioramenti delle condizioni di vita delle donne nei paesi africani. “L’anno scorso, alle nostre elezioni, abbiamo avuto ben 40 donne nel Parlamento – ha spiegato Fofana – Ora purtroppo l’assemblea è stata sciolta, ma si tratta comunque di un grandissimo segnale che abbiamo lanciato”. La poetessa ha aggiunto: “Non vogliamo rimanere nell’ombra, vogliamo uscire allo scoperto“.
L’attenzione dell’incontro si è poi spostata sulla perdita dei diritti acquisiti dalle donne in Afghanistan. Durante i negoziati con gli Stati Uniti che hanno portato all’accordo di Doha, i talebani, il cui governo provvisorio è composto solo da uomini, avevano promesso di essere inclusivi. “Ancora non è molto chiaro che cosa faranno con i diritti delle donne – ha denunciato l’afghana Huma Saeeb, criminologa dell’Università di Lovanio, in Belgio – e l’articolo 22 della Costituzione afghana del 2004, inoltre, vietava qualsiasi forma di discriminazione di genere. Il miglioramento dei diritti delle donne è stato considerato in questi anni come un successo, al punto da giustificare l’invasione. Ma ha ragione chi sostiene che non si può generare una forza liberatrice da chi invade“.
Il rischio, secondo Saeeb, è che l’Afghanistan diventi “una nuova Arabia Saudita”. Secondo la criminologa, una delle speranze per tenere alta l’attenzione verso il paese, una volta che scemerà l’interesse mediatico, sta nel ruolo della diaspora, che “può aspirare a essere occhi e orecchi di un paese dove i media liberi non esistono più”. “Tutti gli afghani che sono arrivati a Fiumicino avevano aspettative molto alte”, ha raccontato Nazifa Mersa Hussain, mediatrice interculturale afghana dell’associazione Binario 15. Hussain ha sottolineato le differenze tra chi in questi anni ha provato a raggiungere l’Europa – più giovani e preparati a un viaggio difficile – e chi è arrivato con i ponti aerei nel mese di agosto, costretto a lasciare le proprie case in poche ore. “Ancora c’è una strada molto lunga davanti e l’accoglienza continua negli hotel e nei centri” ha detto la mediatrice. “Nonostante il governo abbia dimostrato di non essere pronto a fronteggiare l’emergenza – d’altronde non è semplice gestire un’accoglienza del genere in così poco tempo – gli italiani continuano a dimostrare solidarietà”.
“La cosa interessante delle proteste nelle città in Afghanistan è che non abbiamo visto attiviste conosciute, ma donne ordinarie che volevano i diritti per l’istruzione e per il lavoro. Non vogliono perdere quello che hanno conquistato in questi ultimi 20 anni”. Lo ha detto Huma Saeeb, criminologa afghana dell’università di Lovanio, in Belgio, in un’intervista con la Dire. La studiosa, che lo scorso aprile ha pubblicato il saggio ‘I diritti delle donne afghane non siano ‘l’agnello sacrificale’ in un processo di pace dominato dagli uomini’, ha spiegato come quello che è accaduto nel paese sia “peggio di quello che ci si aspettava e ci saranno molte limitazioni per le donne: da quelle sullo sport all’annullamento della Costituzione del 2004″. Durante la fase dei negoziati tra i talebani e gli Stati Uniti, le afghane erano preoccupate: “C’erano solo quattro donne nel gruppo dei negoziatori – ha proseguito la criminologa – c’era qualcosa che non andava”.
All’incontro di ieri del ‘The last 20’ si è parlato di solidarietà globale. “È un messaggio molto importante – ha concluso Saeeb – perché qua c’è la consapevolezza che non saranno gli Stati Uniti, o altri paesi, i nostri liberatori. Dobbiamo essere noi a difendere i nostri diritti“.