Con quale approccio andare incontro, quest’anno, alla ricorrenza della Giornata Mondiale della Pace, che si celebra, come ogni anno, il 21 settembre? Si sa che nelle circostanze memoriali, la tentazione della “canonizzazione” e della “istituzionalizzazione” è sempre in agguato, e può causare il rischio di fare perdere vitalità e mordente al contenuto che si intende, viceversa, richiamare. C’è una bella intervista di qualche anno fa in cui, riflettendo sulle questioni e le problematiche della cultura della memoria, la storica Anna Foa molto acutamente metteva in guardia da questo genere di rischi: «Servono rigore e grande equilibrio per non perdere questo pezzo di storia ed eliminare le scorie e la sovrabbondanza. L’eccesso, penso ad esempio alle immagini di morte così spesso esibite negli incontri o nelle esposizioni, può divenire assuefazione con grande facilità. La mia esperienza di docente mi ha mostrato che non occorre mostrare cataste di morti per comunicare l’orrore. Dobbiamo riuscire a ritrovare il pudore delle emozioni. […] Se potessi, toglierei le ufficialità, le approssimazioni, e cercherei di parlarne in modo pacato. […] Inviterei allo studio e alla conoscenza perché la Memoria si costruisce sulla base del sapere. Proseguire sulla strada attuale di proliferazione incontrollata del ricordo rischia di generare una grande stanchezza nell’opinione pubblica alimentando la rinascita di forme di antisemitismo».
Quello che vale per la Giornata della Memoria, può valere, con le dovute accortezze e distinzioni, per altre ricorrenze e commemorazioni importanti, che sfidano l’ambivalenza tra dovere e vitalità, libertà e necessità, al tempo stesso, della memoria. A maggior ragione se a tema è la questione della pace. Anzitutto: di quale pace stiamo parlando? Nel mondo e nei movimenti, nel discorso pubblico e tra gli “addetti ai lavori”, la domanda scoperchia spesso un vero e proprio «vaso di Pandora», tra la (per nulla consolante) considerazione per cui, in fondo, «chi potrebbe mai dirsi contro la pace?» e la (più che pertinente) obiezione a respingere piuttosto «la pace per far quello che voi volete». Né l’una né l’altra, verrebbe da dire, mettendo in guardia dalla retorica della pace, che, finendo per significare qualsiasi cosa e venendo, nominalmente, a unire tutti senza distinzione, finisce anche per perdere qualsiasi valenza specifica, dal momento che, come lucidamente spiegava Vladimiro Giacché in un bel saggio di qualche tempo fa, a proposito della irrazionale e pretestuosa equiparazione tra comunismo e nazismo, «quando un concetto significa tutto, non significa più niente. La perdita di qualsivoglia ancoraggio semantico significa la morte di un concetto». È per questo che il concetto di pace, lungi tanto dalla retorica, quanto dalle banalizzazioni, meriterebbe qualche attenzione in più: perché, se a parole, come si diceva, si è tutti per la pace, adesso, in questo 2021, sono in corso trentasei conflitti armati (senza considerare situazioni di conflittualità diffusa o, come pure si dice, a maggiore “latenza”) e, sempre in questo 2021, si stanno spendendo nel mondo quasi duemila miliardi di dollari e solo in Italia venticinque miliardi di euro in spese militari (senza considerare spese per finalità di ricerca e sviluppo indirettamente legate al militare); e, dunque, non proprio “tutti” sono, «in opere e parole», per la pace.
Ed allora, per uscire dalla retorica e dissolvere gli infingimenti, conviene volgere uno sguardo minimamente più analitico e fare ricorso a qualche orientamento delle scienze per la pace, che da tempo ci avvertono che c’è una pace «negativa», fatta di assenza, «assenza di violenza diretta, di uccisioni, di ferimenti con armi, di vilipendio verbale, … di odio», ma soprattutto c’è una pace «positiva», che si costruisce e che impegna (dovrebbe impegnare) tutti e tutte noi nella sua costruzione e nel suo approfondimento, che richiede di «cooperare a beneficio mutuo e uguale, … condividere gioie e dolori, con empatia, … organizzazione di equità – armonia, … pace totale, altrimenti detta pax omnium cum omnibus». E cioè, cooperazione e inclusione, giustizia sociale e diritti umani, nello specifico, «tutti i diritti umani per tutti e per tutte». Riportata allora la questione sui suoi fondamenti effettivi, alle sue basi materiali, si direbbe, le questioni della pace, della giustizia e dei diritti non possono più essere staccate, considerate l’una a prescindere dalle altre: non è un caso che, nella attuale edizione della Giornata della Pace, il tema scelto sia quello della eguaglianza e della sostenibilità, all’insegna della «ripresa per un mondo equo e sostenibile». Nella sfida cui le Nazioni Unite ci richiamano, infatti, «siamo ispirati a pensare creativamente e collettivamente a come aiutare tutti a riprendersi, costruire resilienza e trasformare il nostro in un mondo più equo, giusto, inclusivo, sostenibile e sano. La pandemia è stata accompagnata da un’ondata di stigma, discriminazione e odio, che fanno perdere vite invece di salvarle. […] Per riprenderci dalla devastazione della pandemia, dobbiamo fare pace gli uni con gli altri. E fare pace con la natura». «È noto che la pandemia ha colpito più duramente i gruppi svantaggiati ed emarginati».
Nel tempo duro delle imposizioni del potere, delle restrizioni e dei lasciapassare, che sempre più minacciano la qualità delle nostre democrazie e corrodono i diritti di tutti, di cittadinanza e del lavoro, la Giornata della Pace non può essere archiviata come un ammonimento retorico, né ridotta a una compassata celebrazione.