Dopo aver intervistato Vera Pegna, vista la sua lunga vita, traiettoria politica e impegno, le chiedo di suggerirmi dei contatti di persone che reputa importante intervistare. Senza esitare mi passa il nome di un uomo palestinese “di grandissima cultura”: il professor Wasim Dahmash. Ci sentiamo per telefono e dopo poco ci diamo del tu, è una persona molto gentile e disponibile, inizio chiedendogli di raccontare le sue origini…
Sono nato in Siria nel 1948, ma ero stato concepito in Palestina. Infatti, i miei genitori sono stati espulsi dalla loro terra proprio allora. Sono cresciuto ed ho studiato a Damasco. Perché l’Italia? Non lo so di preciso. Forse perché da bambino i miei fratelli più grandi mi mandavano cartoline dall’Italia dove si fermavano le navi con cui viaggiavano. Ricordo anche che alle superiori avevamo un professore che amava raccontarci del rinascimento italiano, di Firenze… Una volta superata la maturità, quando è stato il momento, ho fatto domanda all’ambasciata italiana per studiare in Italia ed è stata accolta. Sono venuto in Italia dove vivo da 55 anni. Ho insegnato per quasi 40 anni, prima alla Sapienza, dialettologia araba, e poi a Cagliari lingua, letteratura e dialettologia araba. Sono in pensione, ma lavoro più di prima.
L’impegno per la Palestina è stata una costante nella tua vita?
Direi di sì, fin dai tempi della scuola ero un militante, anche se ho conosciuto la Palestina indirettamente; mia madre andava ogni mese al campo profughi fuori Damasco e mi ci portava. Ho capito che ero palestinese anch’io, anche se non sono mai andato in Palestina. Non mi è mai andata l’idea di recarmi in un Paese colonizzato.
Da tanti anni fai un lavoro soprattutto culturale, prima era stato più politico?
Io sono stato nell’OLP per molti anni, fino al ’93, quando Arafat riconobbe Israele senza nulla in cambio. Ho deciso di non occuparmi più di questioni politiche, ma solo culturali, il che non vuol dire che non ho le mie opinioni. D’altra parte, credo che l’azione culturale sia la premessa necessaria all’azione politica. Nel ’99, con un gruppo che lavorava alla Sapienza abbiamo fatto una cooperativa e abbiamo dato vita a una casa editrice. Pubblichiamo traduzioni di opere letterarie palestinesi e arabe in generale. Una cosa che ho sempre fatto, dal ’99 ancora di più. Ora ci siamo un po’ dispersi e sono rimasto “socio unico” di questa cooperativa. Se riusciamo a mantenerla? Diciamo che è sempre stata un costo, ma sostenibile e bisogna andare avanti.
Come giudichi l’attenzione nei confronti della questione palestinese in questi anni? Costante o vi sono stati alti e bassi?
Direi che è andata diminuendo dagli anni ’90 ad oggi, dalla firma degli accordi di Oslo, quando è sembrato a molti che ci fosse una soluzione. Poi certo quando ci sono le fasi di bombardamento su Gaza da parte israeliana, operazioni con nomi fantasiosi, l’attenzione sale per poi scendere subito dopo, anche perché da parte israeliana c’è un’organizzazione molto capillare a livello mondiale che fa propaganda per Israele, per l’ideologia sionista. Dal lato palestinese c’è troppo poco, sforzi individuali qua e là.
Come promuovete i vostri libri?
Fino a due anni fa con la Cooperativa e senza il Covid si facevano presentazioni, soprattutto tra i sostenitori della Palestina, ovunque in Italia. Anche perché la grande distribuzione non si occupa di questo tipo di produzione. Adesso è più difficile.
Ti sembra che le vicende dei popoli palestinese, kurdo e saharaui, siano avvicinabili?
Io partirei da un presupposto: ogni popolo ha diritto all’autodeterminazione, un diritto sacro che non può essere messo in discussione; quindi, potrei dire che questi tre popoli, come tutti, hanno diritto a vivere nel modo in cui credono, senza interferenze, oppressioni, interne o esterne. Gli individui come le collettività hanno diritto a scegliere liberamente. È sempre il vecchio “imperialismo” e a mano a mano che la lotta va avanti, questo diventa più feroce e va affrontato.
Ascoltando dei tuoi interventi, che si possono trovare in rete, ho avuto la sensazione che, rispetto al cambiamento, tu punti molto più alla sostanza che alla forma, quando si parla per esempio dello “stato”.
Diciamo che la forma dello “stato nazione” oggi non funziona se non nei paesi che l’hanno inventata. Non funziona in Africa, in Asia, in America Latina e i risultati si vedono; il nazionalismo non funziona, bisogna ripartire dal principio del “diritto”: lo stato deve esistere in base al diritto e deve garantire tutti i diritti, degli individui, delle collettività, delle comunità. Solo a partire dal diritto si può costruire qualcosa di pacifico e progressista. In Palestina questo non succede da un secolo, da quando sono arrivati i colonizzatori, prima europei e poi quelli che oggi si definiscono israeliani, con l’obiettivo di annullare la popolazione autoctona di quel territorio. Ci hanno provato e “vista da qui” sembra che ci siano riusciti, ma in realtà è un obiettivo che hanno completamente fallito.
Puoi fare degli esempi di organizzazioni “non statali” che abbiano funzionato e che siano alternative proponibili o è ancora tutto da pensare?
Direi che nel mondo moderno è tutto da pensare, vi sono state trasformazioni nella storia, dall’esempio dell’impero romano a quelli medievali c’erano comunque forme di legge per la convivenza, che era garantita. Quando nacque il movimento della guerriglia palestinese, questo fece i conti con una nuova realtà, quella degli immigrati ebrei coi quali bisognava convivere. Allora si parlava della necessità di creare una cornice di stato democratico e laico dove si potesse convivere: il COME era tutto da vedere. Poteva essere uno stato binazionale (ma abbiamo visto che non funzionano quelli nazionali, figuriamoci quelli binazionali!), oppure uno stato che andasse al di là delle nazionalità, delle etnie o delle appartenenze religiose o tribali, qualcosa basato puramente sul diritto e, attenzione, sull’uguaglianza economica, perché senza quella il diritto è una farsa.
Quello in Palestina è un conflitto, una sopraffazione che dura da quasi un secolo, quando e come potrà finire? Quale è il limite?
Sembra non esserci in effetti un limite temporale, perché nelle situazioni di colonialismo di insediamento, o la potenza coloniale riesce ad eliminare la popolazione autoctona, riducendola magari ad un fenomeno marginale, o non ci riesce. Nel Nord America o in Nuova Zelanda, o in Australia, per esempio, ci sono riusciti, e i nativi sono quasi spariti. Altrove no, come in Sud Africa, dove la popolazione coloniale non è riuscita ad eliminare i sudafricani. Ne è nato un regime di apartheid estremamente ingiusto, repressivo e criminale. La stessa cosa è successa in Palestina. Israele non riesce ad eliminare la popolazione autoctona e i palestinesi non riescono ad imporre i loro diritti: la situazione è di passaggio, di transizione, ma verso che cosa? Sicuramente verso la sconfitta del colonialismo di insediamento e del regime di apartheid che ne è nato.
Quanto è importante la solidarietà nel mondo arabo?
Moltissimo, ma si divide: nei Paesi dove la ricchezza è diffusa, come nella maggior parte dei Paesi produttori di petrolio (Arabia Saudita, Omar, Qatar, etc.), la questione palestinese è mal sopportata, dà fastidio. Nei Paesi dove le masse sono povere, invece, si sentono solidali coi palestinesi perché si sentono nella medesima situazione di miseria, repressione, persecuzione. Quella palestinese è solo più macroscopica, più visibile, ma è del tutto simile alla loro. I campi profughi in Libano, oggi e da moltissimi anni, sono abitati non più da palestinesi, ma da siriani, curdi…. Quello che voglio dire è che la condizione economico-sociale è quella che conta prima di tutto. D’altra parte, in molti di questi Paesi, la colonizzazione non è mai finita, è solo cambiata: non è più l’Inghilterra ma sono gli USA. In questi Paesi le forze di sinistra, progressiste, liberali, sono state represse nel sangue, uccidendo decine di migliaia di persone, in Egitto come in Sudan o in Iraq. Restano delle reti di persone che si rifanno alle moschee o alle chiese e queste sono sempre state manovrabili, come l’Isis, che gli americani spostano da una parte all’altra del mondo a seconda delle loro esigenze. L’Isis è stato creato dagli Usa in Iraq, l’hanno spostato in Siria, in Afghanistan, in Libia, in Madagascar (dove, per esempio, vogliono prendere il posto della francese Total…). Usano queste organizzazioni criminali, le quali trovano terreno facile perché dalla miseria estrema, estrema repressione, viene fuori la criminalità organizzata, ancor meglio se finanziata e foraggiata dall’estero.
Il tuo lavoro è infatti quello di de-mistificare, svelare, la gran quantità di menzogne che sono le premesse al fatto che le interpretazioni poi vadano in una precisa direzione, falsata.
Sì, è proprio così. Non credo affatto nel caso, ci sono dei precisi interessi e questi vengono sostenuti e difesi con tutti i sistemi con cui il capitalismo ha sempre difeso i propri interessi.
La sproporzione, anche in questo campo, è simile a quella tra un sasso e un carro armato.
Si, ma questo non ci impedisce di tirare il sasso.
Come vedi l’ANP, l’Autorità Nazionale Palestinese?
L’ANP è sostenuta, finanziariamente e/o politicamente, dalla comunità europea e dagli USA: si è creato un meccanismo all’interno della società palestinese che corrode e corrompe la società stessa e questa è la pericolosità dell’ANP. Sono decine di migliaia gli impiegati nelle forze di polizia palestinese, di fatto al servizio dell’occupante; sono decine di migliaia di famiglie che dipendono dallo stipendio che viene dato dall’ANP e questo genera “appoggio”. Molti si sono indebitati con le banche e anche questo fa parte di una strategia coloniale. Immagina che per 20 anni, dal ’67 all’87 (finchè non è iniziata l’Intifada), in Cisgiordania – quindi nella società palestinese – non è stato registrato neanche un caso di furto o di omicidio: quindi si trattava di una società molto sana e solidale, nonostante tutto. Oggi è completamente, totalmente cambiata e questo grazie, o per colpa, dell’ANP.
Come si fa in questa situazione a non deprimersi, a non gettare la spugna, a non mollare tutto?
Bisogna guardare le cose in una prospettiva storica. Israele non ha possibilità reali, oggettive, di eliminare i palestinesi, non ce la farà mai. Il suo progetto è destinato al fallimento, quindi si tratta di resistere. Come succede con gli USA che rappresentano la forza aggressiva più imponente oggi nel mondo: cosa hanno realizzato in Iraq o in Afghanistan o in Libia…? Stanno saccheggiando le risorse, il petrolio, ma alla fine il progetto è destinato al fallimento. Non hanno ottenuto nulla. Ci avranno anche guadagnato economicamente spendendo miliardi per comprare armi che loro stessi producono o pagare gli stipendi ai soldati, in un’economia tutta interna loro.
Permettimi quest’ultima domanda: come immagini la situazione in Palestina tra 50 anni?
Io vedrei un Paese dove c’è una comunità ebraica che si fa un esame di coscienza e rinuncia al sionismo e una comunità palestinese che perdona e convive con quest’altro tranquillamente, e questo avverrà.
Vista la grandissima cultura di Wasim, gli chiedo di mandarmi cinque titoli di libri e di film-documentari che giudica “imprescindibili” per capire meglio la vicenda palestinese, e puntualmente, dopo qualche giorno, me li manda. Eccoli:
Libri
GIARDINA, A. – LIVERANI, M. – SCARCIA, B., La Palestina. Storia di una terra, Roma, Editori Riuniti, 1987;
MASSARA, M., La terra troppo promessa. Sionismo, imperialismo e nazionalismo arabo in Palestina, Milano, Teti editore, 1979;
WEINSTOCK, N., Storia del sionismo. Dalle origini al movimento di liberazione palestinese, 2 voll., Roma, Samonà e Savelli, 1970.
PAPPE, I., La pulizia etnica della Palestina, a cura di Luisa Corbetta e Alfredo Tradardi, Roma, Fazi, 2008;
SAID, E., La questione palestinese. La tragedia di essere vittima delle vittime, Roma, Gamberetti, 1995.
Documentari:
Emwas, Restoring Memories… di Dima Abu Ghoush (Palestina 2016): Il tentativo di ricostruire una civiltà che si tenta di cancellare è ben esposto in questo film che racconta la storia della distruzione dell’antico villaggio di Emmaus e della volontà degli abitanti espulsi di farci ritorno e di ricostruire non solo le case, le chiese e le moschee, ma anche la memoria di un posto carico di storia che gli israeliani cercano di cancellare.
Coffee for All Nations di Wafa Espvall (Palestina 2015) è un film che bene esprime l’attaccamento dei palestinesi alla loro terra e in particolare mette in evidenza il rapporto tra il protagonista e la sua terra che nonostante tutte le violenze a cui si espone resiste fino alla morte a tutto pur di proteggere la terra dal tentativo dei coloni di occuparla. La lavorazione del film, durata 8 anni, offre un esempio di resistenza culturale oltre all’immagine verista della lotta dei palestinesi per la loro terra.
Bloody Basil di Elia Ghorbiah (Palestina 2017) con sensibilità e ottimo inquadramento il regista ha trattato uno degli aspetti più complessi della situazione delle donne palestinesi lavoratrici sotto occupazione, tracciando un quadro in cui la nuova schiavitù delle lavoratrici senza tutela s’intreccia a quella della privazione dei diritti di tutti causata dall’occupazione militare. Il film denuncia il caporalato che anche in Palestina schiavizza le lavoratrici in campo agricolo.
Broken Dreams di Muhammad Harb (Palestina 2017): traccia con sensibilità e competenza la condizione di una giovane lavoratrice di Gaza che affronta il mestiere del pescatore, tradizionalmente riservato agli uomini. La tragedia dell’assedio di Gaza e il dramma della vita quotidiana nella città assediata emergono con chiarezza e senza compiacimenti nel racconto della vita della protagonista. Il film costituisce un documento ed è una denuncia delle imposizioni a cui sono costretti gli abitanti di Gaza la cui vita è ridotta a mera sopravvivenza.
Broken. A Palerstinian Journey through International Law (Broken. Un viaggio palestinese dentro la Legge Internazionale; Palestina/Svizzera 2018) di Mohammed Alatar:
Il film documenta in modo accurato la costante violazione israeliana delle leggi internazionali, delle risoluzioni dell’ONU e dei verdetti della Corte Internazionale di Giustizia, esemplificata dal verdetto sul muro dell’apartheid. La documentazione attesta un lungo lavoro di ricerca che mette in evidenza anche le motivazioni dei giudici della Corte Internazionale.