Come ogni anno il festival ha ospitato il concorso “Cineasti del presente” dedicato alle opere prime o seconde di registi che, a giudizio della giuria, rappresentano le promesse del futuro. Alcuni di questi film mi sono parsi particolarmente interessanti.
“Il legionario”, un film del regista bielorusso Hleb Papou, che dal 2003 vive in Italia, ha vinto il Premio per il miglior regista emergente. Daniel è l’unico poliziotto di origine africana del reparto mobile di Roma; deve sgomberare un palazzo occupato nel quale vivono 150 famiglie, tra le quali sua madre e suo fratello minore, che è uno dei leader dell’occupazione. “Raccontare l’Italia multiculturale di oggi e la generazione dei nuovi italiani, figli di immigrati nati e cresciuti in questo paese”: questa l’idea dalla quale è nato il film, ha spiegato il regista. Non solo, a mio parere, l’obiettivo è stato pienamente raggiunto, ma la pellicola ha anche altri e non meno importanti meriti. Il film mostra i comportamenti, la cultura/sottocultura, i pregiudizi, il clima cameratesco/maschilista che albergano all’interno della Celere, il tutto senza esprimere alcun giudizio, senza esasperazioni e proponendo le immagini e i racconti con una implicitamente rivendicata oggettività, lasciando allo spettatore il compito di valutarli ed esprimere un giudizio. Proprio questa modalità narrativa rafforza il messaggio e differenzia la pellicola da altre che, nel passato, hanno affrontato il medesimo tema, ma rivendicando in partenza un preciso punto di vista che ha selezionato il pubblico, riducendolo spesso a quello già politicamente orientato.
La vita delle comunità che animano l’occupazione dello stabile è descritta senza infingimenti, nella sua grande forza di esempio di resistenza collettiva e di costruzione di catene di solidarietà attraverso esperienze di condivisione, ma anche nella sua contraddittorietà: il virus della discriminazione, dell’individualismo, della ricerca della salvezza personale anche a scapito della salvezza altrui, attraversa infatti anche confini impensabili e la forza della propaganda mainstream del pensiero unico non risparmia gruppi di immigrati. Com’è normale che sia. Da sempre uno dei compiti del potere è quello di cercare di dividere chi gli si oppone, con premi e castighi, ma anche con narrazioni costruite ad hoc. E questa dialettica non risparmia nemmeno la famiglia del protagonista, non solo nei due poli ben rappresentati dai due fratelli, ma anche nel comportamento ondeggiante, forte, ma incerto nelle decisioni, della madre, figura tutt’altro che secondaria nel definire le differenti fasi della vicenda. Un film da vedere anche se alcune scene potranno provocare un senso di forte disagio e malessere, come è accaduto a me, che ho assistito alla proiezione pochi giorni dopo essere stato a Genova per il ventennale del G8 del 2001.
“Mis hermanos suenan despiertos”, (My Brothers Dream Awake) della regista mapuche Claudia Huaiquimila, racconta la vicenda di due fratelli detenuti in un carcere minorile dove, pure nelle restrizioni della prigionia, riescono a vivere una dinamica di gruppo, costruendo rapporti di amicizia. Il pensiero è perennemente rivolto alla libertà perduta e sognata, che nella realtà appare sempre più difficile da raggiungere, fino a quando giunge in carcere un ragazzo con un differente messaggio: la libertà si può raggiungere, ma attraverso la fuga. Tutto cambia, a cominciare dalle relazioni interne al gruppo di ragazzi.
“Quando ci si addentra nella vita quotidiana di un gruppo di giovani dietro le sbarre, discriminati dalla società, emerge la loro bellezza nascosta. Una nuova famiglia può nascere nei luoghi più inaspettati” ha detto la regista, presentando un film che, a mio parere, va ben oltre la descrizione delle dinamiche di un gruppo di giovani detenuti, ma assume il ruolo di una dura testimonianza contro un sistema carcerario fondato solo sulla repressione e sulla violenza anche quando si tratta di minori. La riforma penitenziaria è stato uno dei temi al centro delle grandi manifestazioni che hanno animato negli ultimi anni le piazze del Cile.
Estremamente interessante è l’intreccio delle dinamiche tra i giovani e in particolare tra i due fratelli e la rigidità della struttura penitenziaria: un muro con una parete liscia che non offre alcun appiglio e che consegna alla solitudine individuale e al solo gruppo dei pari l’onere di trovare una via d’uscita.
“Zahorì” di Marì Alessandrini, è ambientato in Patagonia, la terra dove è cresciuta la regista prima di trasferirsi in Europa; la protagonista è Mora, una ragazzina tredicenne, la cui famiglia italo-svizzera si è trasferita nella steppa per inseguire un sogno di libertà, fondato sul rispetto e sull’integrazione con la natura. Ma questa scelta mette a dura prova il rapporto tra i due genitori, l’unità familiare traballa, le scelte di libertà, perseguite con una forte rigidità mentale, costruiscono delle mura invisibili dentro le quali è sempre più difficile mantenere una serenità familiare. A pagarne il prezzo più alto è la giovane Mora, che si ribella prima alla scuola e poi agli stessi genitori, intraprendendo a sua volta una ricerca di libertà. A differenza del padre, questa non è alimentata dal desiderio di tornare in Europa, nella società di provenienza, ma dalla ricerca di una libertà totale raffigurata dalle due creature che Mora si sceglie come amici: Nazareno, un vecchio Mapuche e il suo cavallo Zahori, che scappato dal suo padrone al quale pure era affezionato, ritrova la libertà e l’indipendenza galoppando in solitudine nel vento. Nazareno è l’incontro che offre il coraggio e l’opportunità alla ragazzina di cercare una sua strada.
La libertà dei suoi genitori, frutto di un percorso lungo, faticoso e segnato da cesure con il mondo di provenienza, per Mora è una prigione. Il film pare suggerirci che anche la parola libertà non ha un significato uguale per tutti; ognuno si costruisce una sua idea, o meglio, un suo sentimento e immaginario di libertà; l’importante è trovare il coraggio di non rinunciare a inseguirla, anche se non sai dove ti porterà.
“Mostro” “è ispirato a una storia che sentiamo ogni giorno. Siamo scontenti della fragilità in cui vive la gioventù sotto il governo del Messico e questo è il nostro grido di protesta.” Così il giovane regista Josè Pablo Escamilla, fondatore del Colectivo Colmena, ha presentato il suo film. Lucas ed Alexandra sono due giovani operai che spesso nei loro incontri fanno uso di sostanze chimiche in un luogo isolato in mezzo alla campagna; gli effetti delle droghe li conducono in una vita parallela che li allontana dalla quotidianità segnata dallo squallore della periferia di una città industriale. Ma improvvisamente Alexandra scompare e Lucas, impegnato nella sua ricerca, viene inevitabilmente in contatto con la corruzione e lo sgretolamento dello Stato messicano. E’ solo, non c’è alcun punto di rifermento con il quale condividere l’angoscia, il timore, la speranza. Un film forse ancora un po’ acerbo, come può essere un’opera prima di un giovane regista, ma certamente coraggioso, che affronta un argomento drammaticamente attuale in Messico. Tema che viene rimosso nella quotidianità, salvo poi occupare periodicamente le prime pagine dei giornali per qualche giorno, come nel caso del sequestro dei 43 studenti della scuola agraria di Ayotzinapa, fatti sparire da squadre della polizia il 26 settembre 2014.