Quale miglior cura contro la malinconia se non viaggiare nel paese del sorriso? Dicono che il sorriso dei locali sia una maschera necessaria per oscurare i sentimenti. Dicono anche che il sorriso in Thailandia può significare molte cose, al punto che venga classificato in tredici tipi diversi, che corrispondono a una varietà di emozioni che va dall’estrema allegria alla disperazione più nera. C’è perfino un sorriso usato per non sorridere: lo chiamano Yim Mai Awk. I viandanti dicono tante cose; so solo che, capitolando da nord, vengo schiacciato da una cappa di luci, infrastrutture, asfalto, ragazze truccate. Un cambiamento repentino e arrogante, a pochi “passi” dai cugini laotiani, pacati e taciturni. Il divertimento, detto Sanuk, va spesso a braccetto coi Farang, ossia stranieri venuti quaggiù alla ricerca di spiagge esotiche, trekking, elefanti e forse anche di natiche sode, fiale d’oppio e feste psichedeliche. Trovo una brandina scricchiolante a due USD a notte, lontanissima dalla bramata movida dell’intrigante Bangkok, in un covo insolito di prostitute, islamici intolleranti, eritrei rauchi, transessuali contenti e grasse donnone africane.
Action Aid, associazione internazionale dalle mille e più iniziative umanitarie, da anni è presente in Thailandia per combattere povertà e ingiustizie. Incontro Pao, un energico operatore thai-francese della suddetta ONG, all’angolo di Khaosan Street. Mani giunte in preghiera, forte stretta di mano e via con i primi appunti. “Dal 2001 tentiamo di creare un’alternativa economica estranea al ciclo di miseria e violenza a cui una bella fetta di popolazione Thai è soggetta. L’educazione è il settore a cui puntiamo maggiormente. Perché se il governo spende tanti soldi nell’istruzione le scuole non migliorano? Ci sarebbe tanto da dire. Una nota dolente del nostro paese è pure l’immigrazione, interna ed esterna che sia.
Molti genitori emigrano in città abbandonando i propri figli nelle campagne, assieme ai nonni. I così designati orfani bianchi, fenomeno molto diffuso nell’est Europa. Da tempo questo paese è pure terra di transito per tanti rifugiati e richiedenti asilo, in fuga da Laos, Myanmar, Cambogia, alla ricerca disperata di pace e lavoro in paesi come Malesia, Indonesia o la vostra Europa”. Racconta Pao, sottolineando la parola “vostra” come se il continente europeo fosse davvero una colpa più che una provenienza geografica.
“Nel sud il governo combatte da mesi contro gruppi terroristici musulmani che vogliono connettersi alla Malesia… e poi disoccupazione, conflitti politici, traffici di droga… il problema del nostro mondo è sempre la corruzione, in alcuni paesi più accentuata, smerciata a ciel sereno. In questo cataclisma generale stiamo perdendo il contatto con la terra, l’essenziale della vita. Lo staff di Action Aid si batte anche per migliorare la condizione dei contadini. Gli anziani non incoraggiano i giovani a lavorare la terra perché costa troppa fatica ed il guadagno è minimo. Le nuove generazioni così vengano incoraggiate a trasferirsi in città per trovare un lavoretto in fabbrica”. Sembra di percepire il dopoguerra italiano, dove la figura del contadino è andata gradualmente a sparire, lasciando qualche timido strascico di ruralità. Il dramma dello spopolamento delle campagne, la trascurata ricchezza dei terreni, borghi e casolari antichi lasciati a marcire in cucuzzoli apparentemente privi di vitalità.
Tutto il mondo è paese. Ma a ovest di Bangkok, in un villaggio di poche capanne, una lucina persiste. Khao Nang Sang Hua School è un piccolo edificio con meno di cinquanta alunni. È l’unica scuola nel raggio di venti km e pure l’unica ad accogliere i bambini di Khao Nang, nel mezzo di palme verdissime, vacche tarchiate e radure cotte dal sole. Le classi sono miste e la direttrice, Pattaran Permpoon, è una donna molto ambiziosa: riceve bambini dell’asilo fino alla scuola primaria. Con grande pazienza e impegno Pattaran e compagni sono riusciti ad instaurare un nuovo modello d’istruzione, inculcando fortemente il concetto di integrazione e comunità dopo anni di mancata interazione tra i contadini e (pochi) insegnanti. Nasce così una scuola-fattoria dei tempi moderni, dentro la quale si promuovono prodotti locali e artigianato a chilometro 0. Gli alunni, dopo aver trascorso la mattinata tra banchi e lavagne, prendono il largo giocando a pallone, dando da mangiare ai maialini neri, tagliando la legna per gli abitanti di Khao Nang. La quiete di questo micro mondo però, da qualche anno, è in grave pericolo. Il governo vorrebbe chiudere tutte le scuole che hanno meno di centoventi alunni e indirizzare i bambini verso strutture moderne, grandi, omologate, dove non ci sono galline né nidi di uccelli tropicali tra le travi delle aule. Molti istituti nelle aree remote del paese contano sessanta, addirittura trenta studenti, ma la sfida della piccola scuola è resistere e creare una nuova idea di sostenibilità. Iscrivere i bambini presso un altro istituto significherebbe pagare tasse altissime e rischiare di smantellare la bellezza della comunità.
La scuola come fucina di condivisioni. Il bidello, soprannominato Olé, confida che è sempre più dura la vita di campagna ma opporsi alla società malata non può più essere una scelta, è diventato un dovere. “Il prezzo del riso, nostro maggior sostentamento, è calato drasticamente. Paesi come il Vietnam, Sud Africa o Usa producono sempre di più, lasciandoci agli sgoccioli. Tentiamo il possibile. Nell’ultimo anno siamo riusciti a dar vita a tre fattorie completamente ecologiche. Vedi quegli alberi là? Usiamo le foglie per fare zuppe e succhi di frutta. Quando l’arbusto crescerà eccessivamente verrà tagliato e costruiremo nuove capanne. Ci autososteniamo al 100% e dunque chiudere la scuola sarebbe un duro colpo, davvero”.
Mr. Jamras, un collaboratore, avanza timidamente: “Una buona scuola si misura dal numero degli insegnanti, dal denaro, dai voti ottimi degli studenti è vero, ma credo sia più importante partire da zero, creare una piccola e umile realtà grazie all’aiuto di tutti. Vivere in mezzo alla natura, leggere libri, studiare ma nel frattempo imparare a coltivare la terra. Imparare da madre natura. Questo metodo di studio armonico porta ad essere delle buone persone, non ricche ma sensibili verso ciò che ci circonda”.
Seguo un gruppo di bambini nel fitto della giungla. Non c’è traccia di Internet. Piedi scalzi nella polvere. Uno di essi mette da parte il quaderno di matematica, si avvia verso una pila di bambù con un seghetto in mano. Se qualcuno di voi passasse da queste parti e chiedesse ai bambini cosa vorrebbero fare da grandi, con gli occhi colmi d’armonia vi risponderanno di certo: “Vogliamo rimanere qui, coltivare la terra, aiutare i nostri genitori e fare del bene”. Le risate riempiono la pianura.