Da otto anni seguo la vicenda di Leonard Peltier: a suo tempo mi ripromisi che ogni giorno dovevo far sapere a qualcuno dell’esistenza e della sofferenza di quest’uomo. Credo di aver raggiunto più persone: e-mail, telefonate, cartelli, presidi, striscioni, appelli, incontri, lettere, raccolte firme, viaggi, articoli, e poi di nuovo, ognuna di queste cose, e ancora. Fu grazie a Peltier che incontrai Pressenza: raccolsero quel messaggio nella bottiglia che lanciavo e da allora gliene sono grato.
Due mesi fa il centro per la pace di Viterbo rilanciò una campagna, questa volta rivolta al presidente del Parlamento Europeo, on. David Sassoli. Felice che qualcun altro proponga, spingo, spingo, come c’è da spingere un’automobile ingolfata.
Un’ennesima raccolta di adesioni: molti aderiscono, anche grossi nomi, qualcuno sottoscrive con poca convinzione, pensando alla scarsa utilità. Arrivano delle risposte alle e-mail piuttosto “automatiche” e insignificanti. Si va avanti. Traduciamo l’appello in varie lingue, in fondo si tratta di Europa.
E ieri la notizia dall’ANSA: il presidente Sassoli prende posizione e chiederà la liberazione di Peltier.
Qualcosa si muove. Ora bisogna battere il ferro finché è caldo, forse la recente caduta di immagine degli Usa potrà far sì che il presidente Biden cerchi di recuperare, anche con piccoli gesti.
Insomma, se si è aperta una fessura nella porta che chiude quell’uomo in carcere da 45 anni e mezzo, dobbiamo spingere con tutte le nostre forze perché si allarghi, fino a che possa passare e uscire, in libertà.
Scriviamo anche un breve messaggio al sito della Casa Bianca: FREE LEONARD PELTIER, o più esteso se credete, per esempio: “Dear Mr. President after more than 45 years it’s the highest time that the imprisoned indigenous human rights activist Leonard Peltier now has to be released.”
Festeggeremo in tanti e tante il giorno in cui Peltier sarà liberato.