La precipitosa fuga dell’esercito a stelle e strisce dall’Afghanistan, dopo vent’anni di inutile guerra, non è soltanto una cocente e clamorosa sconfitta militare, ma forse anche il segno di un possibile declino, sicuramente di una profonda crisi, del modello di dominio globale posto in atto dal liberal-capitalismo occidentale, rappresentato sostanzialmente, e pressoché univocamente, dalla superpotenza americana. La nuova situazione sta determinando profonde mutazioni negli assetti della geopolitica globale, che sembrerebbero volgersi a tutto vantaggio delle nuove forme di espansione e controllo che caratterizzano l’avanzata del capitalismo di stato di stampo cinese.
Sin dalle sue origini, con la fine della seconda guerra mondiale e la nascita del mondo diviso in blocchi, la politica di controllo globale americana si è fondata su due caratteristiche costanti e dominanti. Da un lato la guerra guerreggiata, quasi esclusivamente basata sull’intervento militare diretto, e solo secondariamente sul sostegno sempre militare di tipo logistico, di addestramento e di fornitura di armi alle parti amiche. (Sia detto tra parentesi gli stessi talebani, che erano in origine un gruppo piccolo e insignificante sono stati resi “grandi” e potenti dagli stessi americani, in funzione anti sovietica). Dall’altro lato stava la propaganda ideologica, paradossalmente accentuatasi dopo la caduta del muro e la fine dell’URSS, e fondata sulla pretesa della difesa della democrazia e dei diritti umani, con risultati più che fallimentari. Diremmo anzi quasi sempre disastrosamente opposti alle intenzioni dichiarate, come mostra anche oggi la catastrofe umanitaria, soprattutto a danno delle donne, che si sta verificando a Kabul, dopo la fuga di chi pretendeva di portare (a parole) libertà e democrazia.
L’espansione dell’egemonia dello statal-capitalismo cinese presenta al contrario caratteri del tutto diversi. Innanzitutto una intelligente abiura (almeno allo stato delle cose) dell’intervento militare a favore di una penetrazione, in qualche modo più subdola e più soft, di tipo quasi esclusivamente economica, anche con attenzione, a mio avviso solo apparente e di facciata, alle esigenze locali. Anche in questo caso possiamo distinguere, tra gli altri, due aspetti che sembrano centrali e caratterizzanti, e perfettamente funzionali al nostro ragionamento. Il primo riguarda la sempre più estesa costruzione di infrastrutture di trasporto e di logistica, legate al progetto della “nuova via della seta”, che tendono sempre più ad estendersi come una ragnatela di corridoi di dominio commerciale,tra Asia, Africa ed Europa. Dall’altro lato un controllo, che sta divenendo sempre più pervasivo, delle risorse minerarie dell’intero globo. Secondo l’agenzia internazionale dell’energia, la Cina oggi controlla, solo per fare un esempio, il 40% del rame, il 60% del litio e l’80% delle “terre rare”, attualmente scoperte nell’intero pianeta. Non sono esempi casuali: senza il litio non esisterebbero le batterie di nuova generazione. Dunque niente smartphone, niente auto elettriche e niente transizione ecologica, tanto cara alla Unione Europea. Senza le cosiddette “terre rare” (tecnicamente 17 elementi chimici della tavola periodica) l’informatica e il moderno hi-tech (attuale e futuribile) non sarebbero neppure pensabili. La Cina controlla giacimenti minerari in tutto il mondo. La sua presenza spazia dal Sud Africa all’Argentina, dal Congo all’Australia, al Brasile e alla Bolivia, dove l’appropriazione pare arrivi al 100% delle risorse. A volte si punta sugli accordi politici. Altre volte la tecnica è quella della penetrazione di mercato con il controllo dei pacchetti azionari delle società di estrazione, attuato da società che agiscono in una dimensione privata, ma che in realtà sono di proprietà dello Stato cinese. Il tutto con l’intelligenza di collaborare, per le lavorazioni, con aziende americane allo scopo di colmare quel gap tecnologico, che in controtendenza rispetto alla ascesa dei nuovi padroni (e importante variabile di cui tenere conto, anche in senso generale), gioca ancora e in molti campi a favore dell’impero USA.
Sulla base di quanto detto torniamo ora alla attuale situazione del nostro martoriato Afghanistan. Da più parti si sottolinea come la resa degli americani lasci spazio agli altri competitori (Russia, Turchia e Cina, che non a caso sono gli unici paesi, se non sbaglio, che hanno lasciato a Kabul le proprie rappresentanze diplomatiche). La Cina in particolare potrebbe trarre un enorme vantaggio dall’imporre la propria egemonia sul paese oggi in mano ai talebani. L’Afghanistan, per quanto abbiamo detto, potrebbe rappresentare un vero e proprio paese di Bengodi. Posto al centro dell’Asia in una posizione strategica, ha tutte le caratteristiche per rientrare nei piani di espansione legati alla costruzione della via della seta. Ma, fatto forse ancora più importante, il paese possiede una ricchezza mineraria, ancora non del tutto definita nella sua consistenza, ma sicuramente straordinaria. Non a caso si parla di un patrimonio potenziale di 3000 miliardi di euro, ma la cifra potrebbe anche essere approssimata per difetto. Una ricchezza che comprende di tutto, compreso (pare) enormi quantità di rame, litio e terre rare, di cui abbiamo già detto. Furono i russi al tempo dell’occupazione sovietica ad accorgersene per primi, ma non ebbero il tempo di sfruttare la situazione. Poi dopo l’occupazione del 2001, toccò agli americani mappare quell’enorme serbatoio di minerali preziosi, ma senza riuscire ad impossessarsene, impossibilitati come erano dalle impellenze della guerra. Oggi la logica dice che toccherà ai cinesi, e con molte più probabilità di successo, visto che, senza attendere gli eventi, molti diritti d’estrazione sono stati acquisiti e molti investimenti già fatti. D’altronde i potenziali nuovi padroni del mondo si giocano tantissimo: O perdono questa occasione in favore di altri competitori, rischiando di non avere più il controllo della ricchezza del nostro futuro tecnologico, oppure mettono le mani sul “malloppo”, e allora il loro monopolio diviene inattaccabile.
Naturalmente quello delineato è solo uno degli scenari possibili, che a noi interessava particolarmente perché quello più legato a prospettive generali di geopolitica. I talebani potrebbero, invece e per esempio, come è stato detto, organizzare il loro potere come una casta che controlla il narcotraffico, specialmente dell’eroina, come per altro già fanno. (Questa ipotesi tuttavia non è in diretta contrapposizione con altre possibilità.) Bisogna poi tenere conto di altri fattori come la presenza di interessi diversi, come quelli già citati di Turchia e Russia, o quelli più specificatamente regionali degli Stati confinanti o vicini. Non da ultimo bisogna poi considerare le difficoltà che i talebani potrebbero avere nel controllo del territorio, vista la presenza dei vari poteri tribali, compreso le minoranze sciite e la persistente ribellione della regione del Panjshir.
Se tuttavia restiamo alla nostra ipotesi di una crescente presenza cinese, dobbiamo ancora trarne una importante conclusione. Sarebbe molto difficile, data questa premessa, che l’Afghanistan possa trasformarsi in una centrale del terrorismo internazionale, come oggi molti temono. La Cina non potrebbe permetterlo per svariate ragioni, e lo ha già chiaramente mostrato con le parole e con i fatti. Innanzitutto da paese confinante temerebbe un effetto contagio dell’integralismo entro i propri confini, rispetto alla minoranza turco islamica degli Uiguri, che già da tempo viene guardata con sospetto e rigidamente controllata, anche con forme più o meno velate di pulizia etnica. Inoltre, e cosa ancora più rilevante sul piano generale, come abbiamo visto, la penetrazione cinese negli Stati e nei mercati mondiali preferisce (almeno per ora. Domani chissà) l’apparente quiete dei commerci al fragore delle armi. Una presenza eccessivamente militarizzata e destabilizzante dei talebani nella regione sarebbe certamente in contraddizione con gli interessi cinesi.
Vorremmo concludere dicendo che di fronte ad ogni possibile scenario ciò che è certo è che ad essere esclusi sono i diritti dei popoli, delle grandi masse di donne e uomini da sempre ridotti al silenzio e all’impotenza. Quegli stessi diritti spesso agitati dall’occidente come bandiera per giustificare le nefandezze della guerra e poi subito accantonati quando non servivano più alle esigenze della politica e del dominio. L’unica sola alternativa agli scenari degli scontri di potere sarebbe quella d’un riprendersi la parola da parte dei popoli della terra. So bene che detta così appare oggi come una irrealizzabile utopia. E’ vero! Ma è anche vero che tutti i possibili percorsi di quell’utopia (compresi gli inevitabili vicoli ciechi) sono ciò che solo ci è dato.