La lotta dei lavoratori della GKN di Campi Bisenzio contro il loro licenziamento comunicatogli via whatsapp mette non solo loro, ma tutti coloro che hanno subito o stanno subendo un trattamento analogo allo scoccare della fine del blocco dei licenziamenti e ancor più tutti coloro, molto più numerosi, che troveranno i cancelli della loro fabbrica chiusi al rientro dalle ferie, di fronte a un dilemma. Da una diversa prospettiva – meno immediata, ma ancora più drammatica – questo coinvolge in modo radicale tutti i veri ambientalisti (ma vogliamo non chiamarci più tali? Siamo solo persone informate che prendono sul serio il futuro di noi tutti: cosa che il nostro governo, ma anche quello di quasi tutti gli altri paesi e l’insieme delle classi dirigenti – chiamiamoli pure padroni – del pianeta hanno dimostrato di non saper fare).
Il dilemma è questo: ci sono maggiori possibilità di un esito positivo di questa lotta imponendo la riapertura dello stabilimento, la ripresa di una produzione che tutto sommato era in attivo (ancorché a tirare le file ci sia una finanziaria che gli attivi li fa comprando e vendendo, chiudendo e spezzettando aziende, con dentro tutti quelli che ci lavorano, come fossero pezzi del macchinario), oppure prospettando fin da ora una riconversione dell’impianto ad attività veramente funzionali alla conversione ecologica? Dove quel “veramente” sta a escludere ogni finto Green New Deal, come, per esempio, la motorizzazione elettrica di massa (un’auto elettrica nuova al posto di ogni auto termica vecchia e una ciascuno per tutti gli abitanti della Terra). E, in attesa che la riconversione dell’impianto sia portata a termine, non occorre forse puntare sul reddito di base per tutti coloro che si trovano nella stessa condizione?
Una cosa va affermata con forza come premessa. E’ solo in mobilitazioni come quella della GKN, tanto più quanto più riescono a raccogliere intorno a sé il consenso, il supporto e l’adesione di una comunità e di una rete di solidarietà che va al di là dei confini territoriali, che si crea la forza necessaria a imporre una riconversione produttiva. Al di fuori dei momenti di lotta e dell’organizzazione che questi contribuiscono a creare (ma spesso, come nel caso della GKN, questa non è che l’emergere di un lavorio quotidiano che ha coinvolto negli anni la parte più attiva dei lavoratori), la “transizione ecologica” è destinata a rimanere un obiettivo astratto, privo delle gambe su cui camminare.
Il problema è dunque studiare come una vera conversione ecologica, prospettata sulla base delle urgenze imposte dalle evidenze scientifiche ormai accessibili a tutti, possa integrarsi con le esigenze immediate di un numero crescente di lavoratori che di qui ai prossimi anni vedranno messi in forse il loro posto di lavoro, il loro reddito, la loro vita familiare, la loro dignità, a volte, la loro stessa esistenza dal businness as usual. Insomma, “come arrivare alla fine del mese senza perdere di vista la fine del mondo”.
Ai lavoratori minacciati nelle basi stesse delle loro esistenze spetta l’onere di guardare in faccia il loro futuro con realismo: quante chance reali ci sono che la proprietà riapra le porte dello stabilimento e che le tenga aperte per anni in futuro, o che una nuova proprietà non intervenga con progetti fasulli, per spillare qualche milione allo Stato, per poi non combinare nulla, o per portarsi via knowhow, mercato o anche il macchinario, come è successo in praticamente tutti i progetti di “riconversione” promossi dallo Stato?
Alle persone che si interrogano sulle possibili modalità di una transizione ineludibile e urgente, che comporti il minor costo possibile in termini di giustizia sociale per chi ne ha già pagati tanti e le maggiori possibilità possibili di rendere vivibili territori destinati a essere stravolti dalla crisi climatica e ambientale, spetta l’onere di essere seri: di non sedurre e farsi sedurre dalle prospettive di una transizione “indolore”, di una continuità degli stili di vita consolidati in modalità “sostenibili”. E, soprattutto, di non giocare a Napoleone, pensando a che cosa fare una volta al governo o al posto di chi comanda; questa eventualità non si presenterà mai nel tempo utile a nostra disposizione e ogni passo verso assetti sostenibili – soprattutto in direzione di un adattamento alle condizioni molto più critiche in cui dovranno vivere le prossime generazioni – dovrà essere strappato con le unghie e con i denti, territorio per territorio, settore per settore, comunità per comunità. E sempre in un contesto di continuo conflitto.
La seconda premessa è che la riconversione produttiva non può essere realizzata, né promossa, azienda per azienda, impianto per impianto (molti dovranno essere ridimensionati o soppressi) e la responsabilità di concepirla, progettarla, promuoverla e realizzarla non può ricadere solo sulle spalle delle relative maestranze. Soluzioni come l’autogestione o il controllo operaio dell’azienda metterebbero solo i lavoratori in competizione con quelli di altre aziende dello stesso settore. Occorre la mobilitazione di un’intera comunità territoriale e delle reti di solidarietà e di cooperazione a cui ogni comunità può ricorrere. La riconversione, come l’assetto di una comunità più “adattata” alle condizioni critiche del futuro (l’idea che queste possano ancora essere sventate è da abbandonare definitivamente e ogni nuovo giorno ce lo conferma) è una questione che riguarda, volta per volta, ambiti territorialmente circoscritti. Solo la replicabilità delle iniziative adottate ne può garantire la propagazione e la ripresa nel resto del pianeta. Con un movimento reciproco.