Biden sapeva (è ovvio) che una volta allontanate le truppe statunitensi l’avanzata dei Talebani sarebbe stata travolgente e che tutta la “bolla” (come la chiama Alberto Negri) costruita intorno alla presenza degli Stati Uniti in Afghanistan sarebbe precipitata nel caos. E se non lo sapeva lui, per i limiti della persona, non poteva ignorarlo l’apparato che quella bolla aveva costruito: il suo staff, gli Stati maggiori, la Cia… E avrebbero dovuto saperlo anche i governi di quei paesi che avevano affiancato quella folle avventura per puro servilismo. Certo, concludere una guerra è più difficile che dichiararla; smobilitare è più complesso che mettere in moto delle truppe; soprattutto se la guerra è stata condotta male e senza chiarezza. Ma a come affrontare questa evenienza, ormai certa da tempo, nessuno di loro ha mai veramente pensato. E meno che mai provveduto e pianificato. Il problema – con le sue implicazioni interne e internazionali – era ormai troppo complesso per coloro che avrebbero dovuto affrontarlo (gli stessi che lo avevano creato, e poi alimentato per anni, o i loro successori). Per questo sono rimasti come paralizzati aspettando che la bolla, il bubbone, scoppiasse nel peggiore degli esiti possibili: il caos.
Ora, se pensiamo che questi signori (e signore) sono gli stessi a cui è affidata la soluzione – e in tempi strettissimi – del più grave dei problemi che l’umanità si trova di fronte, la crisi climatica e ambientale, c’è da rabbrividire. La loro risposta è altrettanto catatonica e irresponsabile: una mera procrastinazione delle decisioni in attesa del caos. Anche in questo caso l’inizio della catastrofe risale a molti anni fa: l’allerta era diventata ufficiale al vertice di Rio (1992), ma da anni un numero crescente di scienziati li stava avvertendo della minaccia incombente. La malagestione del problema si è prolungata per trent’anni trasformando in barzellette o poco più le ben 25 CoP (Conferenze delle Parti) con cui è stata gestita la Convenzione quadro sui cambiamenti climatici (Unfccc). Ciascuna delle quali ha mobilitato inutilmente -con relativi costi e impatti – decine di migliaia di “diplomatici del clima”, mentre le emissioni climalteranti continuavano a crescere e i loro effetti si facevano ogni giorno più evidenti, soprattutto nei paesi più poveri e sfruttati della Terra. Così, intorno alla questione del clima è stata costruita una “bolla”, analoga a quella dell’Afghanistan, per far credere che il processo era sotto controllo e che non c’era da preoccuparsi. Il problema era spingere la crescita, mentre il mondo stava andando sempre più rapidamente a fuoco.
Adesso la crisi climatica e ambientale sta esplodendo (e la pandemia di covid19, che non si riesce ad arginare, non ne è che una manifestazione “secondaria”), ma i responsabili dei destini dell’umanità non sanno come affrontarla. Gli scienziati e alcuni ambientalisti continuano a lanciare allarmi: “Abbiamo a disposizione solo pochi anni – e sempre meno – prima che la catastrofe diventi definitiva. Bisogna agire subito: smobilitare l’apparato bellico che i Governi (Stati Uniti in testa; ma nessuno si è tirato indietro) hanno messo in campo nel corso del tempo contro la natura, contro gli equilibri geofisici del pianeta e quelli biologici di tutti gli ecosistemi”. Ma è un problema troppo grande e troppo complesso per chi ci governa. Per questo stanno dilazionando le misure da prendere: c’è da smontare e rimontare completamente l’apparato produttivo del pianeta; non è cosa da poco. Non vi hanno mai veramente pensato concretamente, in attesa del caos, per poter dire che non si poteva fare altrimenti.
Adesso, a cercare di contenere al disastro afghano lavorano le Ong, che si adoperano per il trasferimento e l’accoglienza dei profughi e per la difesa – da lontano – delle migliaia e migliaia di operatori abbandonati sul campo, e i volontari delle Ong locali decisi a rimanere là a loro rischio. Forse, attraverso i legami tra i profughi che riescono a espatriare e i loro colleghi e le loro comunità rimaste in patria si potrà creare una leva con cui influire sugli sviluppi della situazione interna. E’ un modello per ripensare anche il nostro rapporto con tutti i paesi in cui la devastazione del pianeta sta generando ondate di profughi. Ma il prezzo da pagare è comunque altissimo e l’esito tutt’altro che promettente.
La crisi climatica e ambientale rende però le cose mille volte più pesanti e impone un passaggio di mano dall’establishment che ci sta portando verso il caos a una nuova generazione rappresentata da tutti coloro che hanno risposto o risponderanno all’appello di Greta Thunberg. Proteste e mobilitazioni – indispensabili – non bastano più. Occorre mettere a punto progetti concreti di conversione ecologica, territorio per territorio: là dove pensare globalmente può accompagnarsi all’agire localmente.