Il 19 Luglio del 1979, negli Stati Uniti era Presidente Jimmy Carter, Giulio Andreotti era Presidente del Consiglio, alla guida dell’URSS c’era Leonid Breznev. Gli anni Settanta si avviavano alla conclusione, e con loro una lunghissima stagione di lotte mobilitazioni e conquiste, alla soglia invece di un decennio che sarebbe stato caratterizzato dalla prime inequivocabili avvisaglie di individualismo e disimpegno. Per lo meno in Italia, e in gran parte dell’Europa.
L’“evento” che forse meglio simboleggia quel sofferto passaggio storico, è la famosa marcia dei Quarantamila a Torino; il 14 ottobre scesero in piazza, per così dire, colletti bianchi e quadri dirigenziali della Fiat, in una rappresentazione icastica di spirito reazionario e servilismo. Più di qualcuno disse e scrisse che quel giorno finì il Novecento. Vero, ma probabilmente più vero che sarebbe stato necessario attendere la Guerra nei Balcani e la disgregazione completa del blocco dell’Est, come suggerito in seguito da Eric Hobsbawm. Sul Secolo Breve dunque, scorrevano i titoli di chiusura mentre in America Latina, per alcuni versi, si era ancora alla overture.
Il 19 Luglio del 1979, in un piccolo stato dell’istmo centroamericano, sebbene il più grande dell’America Centrale, colonne di guerriglieri entravano nella capitale Managua da Sud e da Nord, dopo aver liberato le maggiori città e aver costretto alla resa una delle tante dittature che hanno infestato il Subcontinente per tutto l’arco del secolo. Anzi, fin dalla Conquista, avvenuta cinquecento anni prima, fatta passare prosaicamente per “scoperta”. La dinastia tirannica dei Somoza, insediatasi in Nicaragua dopo l’assassinio di Sandino ordito con Washington e le proprie truppe occupanti dei Marines, cessò la sua sanguinaria missione in quel luminoso giorno di luglio. Anastasio Somoza Debayle, lasciò il paese in tutta fretta e con il favore delle tenebre due giorni prima, in quello che diventò poi El día de la Alegría, la cui sola definizione di per sé contiene il mood di un intero popolo.
Quell’evento, la Rivoluzione Popolare Sandinista, giunse quindi in un momento inaspettato della Storia. Fu una sorpresa anche per i tanti popoli sparsi per il mondo ancora alle prese con i feroci artigli dell’imperialismo e del colonialismo, che continuavano a imperversare e infierire nonostante la suggestiva superficie esibita di “democrazie”, successive alla sciagura delle guerre mondiali. Il trionfo del Frente Sandinista de Liberación Nacional, dimostrò che un piccolo paese può scrivere a caratteri cubitali il proprio destino. Perché ha deciso di sceglierlo, lontano da qualsiasi Dottrina Monroe e da qualsiasi timore, se non quello di rendere davvero giustizia alla Storia.
Quel 19 Luglio fu inaspettato anche per uomini e donne che lottavano nella propria terra senza dimenticare la miriade di cause per cui valeva la pena combattere oltre i confini. E precisamente perché partiti sindacati e organizzazioni operaie, della Solidarietà Internazionale e dell’Internazionalismo ne avrebbero fatto principi e prassi inderogabili ancor prima di nascere. E perché una manciata di anni prima, un argentino partito da Rosario e approdato all’Avana, avesse già scritto una pagina incancellabile di coscienza e dedizione. Ernesto Che Guevara, non avrebbe potuto esprimerlo meglio: “Siate sempre capaci di sentire nel più profondo qualsiasi ingiustizia, commessa contro chiunque, in qualsiasi parte del mondo. È la qualità più bella di un buon rivoluzionario.”.
Cosicché, verso Managua, sulle orme di Sandino e del Guerrillero Heroico, si incamminarono le speranze e i desideri non solo del popolo nicaraguense, ma di una umanità recalcitrante ai soprusi e alle ingiustizie. In qualsiasi parte del mondo fossero commesse. Una riedizione di quanto accadde vent’anni prima con Cuba e soprattutto a metà degli anni Trenta in Spagna. La giovane rivoluzione sandinista, la chavala (la bambina) come veniva chiamata in Nicaragua, offrì un’occasione unica di riscatto e di sperimentazione, per le novità che presentava anche al cospetto di altre esperienze “classiche” di ribaltamento dei rapporti di forza.
Di rovesciamento delle priorità e dei poteri. Il non-allineamento internazionale, il pluralismo politico, la riforma agraria, la imponente campagna di alfabetizzazione, e tante altre piccole e grandi modalità di condurre un processo rivoluzionario di tale portata, attirarono l’attenzione e il coinvolgimento di realtà sociali tradizionalmente perplesse di fronte all’uso della lotta armata per sconfiggere la tirannide. Non a caso, sacerdoti e suore presero parte attivamente a operazioni militari e di guerriglia e determinante fu il contributo delle Comunità di Base che facevano riferimento alla Teologia della Liberazione.
Insieme alla solidarietà arrivarono le bombe dall’alto e le stragi organizzate dalle orde controrivoluzionarie, alimentate e sostenute dall’amministrazione Reagan. Dall’altro lato della dignità, non era tollerabile uno smacco così limpido alla insaziabile fame di dominio; l’embargo e il terrorismo sistematico ai danni del Nicaragua Sandinista finirono per sfinire una popolazione allo stremo dopo anni di guerra, di sacrifici e perdite, di atrocità e lacrime per i figli uccisi dall’irredentismo imperiale. Il 25 febbraio del 1990, l’FSLN consegnò il potere a un coacervo di formazioni racchiuse nella UNO (Unión Nacional Opositora) di Violeta Chamorro, dopo aver conquistato la democrazia in un indelebile luglio di undici anni prima.
Dal 1990 al 2006, quando il Frente vinse di nuovo le elezioni, il Nicaragua ha conosciuto il baratro delle politiche neoliberiste che si sono accanite su un paese colpevole di indipendenza. Da laboratorio politico-sociale di progresso, si è passati alla macelleria del neocolonialismo. I governi che si sono succeduti hanno rispettosamente omaggiato lo strozzinaggio della finanza mondiale e le rigide indicazioni della Casa Bianca. Sedici anni di ritorno a un passato di ingerenze e sfruttamento, con un inevitabile disorientamento della base come della dirigenza sandinista. Nel frattempo, il mondo era irrimediabilmente cambiato.
Il crollo dell’Unione Sovietica, e il conseguente stravolgimento dello scacchiere geopolitico, non potevano non incidere anche sulle sorti di quei paesi che avevano osato sfidare il gigante nordamericano. Periodo durissimo per Cuba, oltre che per il Nicaragua. L’FSLN però non depose le armi, in questo caso quelle della competizione elettorale che esso stesso aveva garantito con il sacrificio della propria militanza dal 1962 in poi, e rafforzò i presupposti per tornare alla vittoria. Con le urne e di nuovo con una massiccia partecipazione popolare.
Il Comandante Daniel Ortega, alla guida di un partito che unico nella storia ha conquistato il potere con una rivoluzione e poi in libere elezioni, diventerà Presidente della Repubblica del Nicaragua nel novembre del 2006. E lo è tuttora, dopo avere stracciato una destra entreguista e rancorosa, nonché la “dissidenza” interna al Frente, smaniosa di cadere nelle braccia del nemico di una volta. E contribuire al tentativo fallito di golpe del 2018.
La strategia è ormai chiara: sovvertire governi ed esperienze dal Rio Bravo a Ushuaia poco solerti con i diktat statunitensi. L’elenco è lungo e tragico: Honduras, Venezuela, Ecuador, Brasile, Paraguay, Bolivia, Cuba e, per l’appunto, Nicaragua. Finanziare pseudo-organizzazioni umanitarie per seminare il terrore e minare le fondamenta di ordinamenti democratici. Non perfetti e sicuramente con carenze e mancanze, come d’altronde lo è dappertutto e da sempre la democrazia. L’ipocrisia della Unione Europea, praticamente inesistente dal punto di vista diplomatico come si è potuto ravvisare in altre parti del mondo, e, duole dirlo, l’attitudine rinunciataria e spesso superficiale di parte della Sinistra mondiale, rendono il quadro ancora più fosco, se possibile.
A completare l’opera, il ruolo dirompente del totalitarismo digitale che inquina l’informazione e sabota la creazione di un pensiero immune da idiozia e asservimento. Della potenza mediatica, e non solo purtroppo, scatenata dai social network ne abbiamo già avuto un eloquente esempio in diversi paesi, dal Medio Oriente all’America Latina passando per l’Europa dell’Est.