È mattina. Il sole splende e dalla cucina viene un leggero odore di caffè. Vostra madre vi sveglia con un bacio sulla guancia e vi dice di alzarvi che bisogna andare a scuola. In cucina trovate ad aspettarvi latte e cereali. E la televisione. Come tutte le mattine è accesa e blatera sull’andamento dell’economia e le nuove riforme. Interessante? Ovviamente no. Fosse per voi la spegnereste anche. I vostri genitori però hanno il sacrosanto diritto di guardare il tg e sapere che cosa sta succedendo nel mondo. È naturale. Sono adulti e voi non dovete immischiarvi nelle cose dei grandi.
Passano gli anni. Il vostro corpo si trasforma, nel bene e nel male, e così pure la vostra visione del mondo e il rapporto che avete con esso, nel bene e nel male. Una sola cosa non cambia. Ogni mattina appena entrate in cucina l’apparecchio televisivo spara notizie senza sosta. Ancora continua a non interessarvi. Adesso però non siete più dei bambini. Siete cresciuti. Perché allora non vi interessano le cose che interessano agli adulti? Ma soprattutto, perché dovete continuare a sorbirvi questa lagna tutti i giorni? Perché è qualcosa di naturale, che è giusto che sia così.
Anche nel caso in cui i vostri risvegli ai tempi della scuola siano stati meno idilliaci, tutte le volte che un programma televisivo non desiderato vi ha fatto compagnia per la colazione o dopocena siete stati soggetti a violenza simbolica. Il termine coniato da Pierre Bourdieu indica un tipo di violenza che non appare come tale, e che tuttavia si manifesta nella sofferenza che produce nelle persone che sono soggette ad essa. È una forma di violenza che è stata giustificata e razionalizzata dalla società, che viene presentata come il modo corretto o naturale di procedere e di cui le vittime tendenzialmente non sono coscienti.
L’istruzione “tradizionalmente”, quella con gli insegnanti che bacchettavano gli studenti e i genitori che tornati a casa rincaravano la dose perché si era troppo asini, era una forma di violenza simbolica. Gli alunni infatti non potevano far sentire la propria voce e non avevano altra possibilità che subire passivamente le decisioni degli insegnanti. D’altronde, venendo presentato come il metodo giusto per insegnare, agli alunni e alle alunne spesso non veniva nemmeno in mente l’idea di protestare. La violenza simbolica è una violenza che viene introiettata e che non appare quindi come tale. È una violenza che viene trasmessa dalle figure in posizione di potere (sì, anche i genitori sono in una posizione di potere rispetto ai propri figli e figlie) attraverso modi di fare e di agire che vengono presentati come giusti e legittimanti quindi l’ordine sociale esistente. Si agisce sulla dimensione simbolica, andando ad inculcare nelle persone sin dalle più tenere età (socializzandole) una visione del mondo che sostiene varie forme nascoste di sopruso. Queste diventano poi dei processi automatici a cui non si fa più caso. Sempre Bourdieu direbbe che diventano un habitus, un modo di comportarsi e di dare forma al mondo inconscio ed ereditato dagli individui in quanto membri di un gruppo sociale.
E questo è ciò che rende la violenza simbolica veramente subdola. È necessario uno sforzo estremo di analisi e auto-analisi per rendersi conto di essere all’interno di una situazione abusante. La sofferenza della violenza simbolica difatti raramente (quasi mai in realtà) assume le forme di un livido o una frattura. Striscia e si insinua in comportamenti, modi di fare e relazionarsi e persino costruzioni apparentemente normali. Un marito che dà per scontato che sia l’uomo ad amministrare lo stipendio nella coppia, oppure un ufficio pubblico accessibile soltanto attraverso una rampa di scale ripidissima ed altre barriere architettoniche sono forme di violenza simbolica. Anche il trovarsi a subire un intervento da cui potrebbe dipendere la propria vita o la propria salute mentre il personale di sala discute sull’ultima hit dell’estate o il prezzo dei pomodori al mercato è una forma di violenza simbolica. In un episodio dell’Antronauta Patrizia Quattrocchi parla di quest’ultimo caso proprio come una delle manifestazioni della violenza ostetrica.
Un altro motivo per cui queste violenze sono invisibili è che anche laddove una persona sia benintenzionata è difficile andare contro quello che viene generalmente condiviso da tutti come il dato per scontato, specialmente se non si è soggetti diretti di una situazione di disagio. Un modo per farsi odiare dalle persone cercando di fare gli spiritosi è chiedere loro se si sono fatte male dopo che sono cadute o hanno ricevuto una pacca forte e controbattere alla loro risposta: “Ed io no”. Lo stesso tipo di risposta viene dato a tutti/e i/le figli/e che la mattina vorrebbero spegnere la tv o guardare i cartoni o alle donne che desiderano abortire nei paesi dove è proibito. Per metterla papale papale con un altro esempio: da persone senza background migratorio, nate e cresciute in Italia da generazioni, diventa difficile rendersi conto delle forme di discriminazione meno apparenti.
Che fare allora? Innanzitutto bisogna essere motivati a volere che le cose siano diverse e che il mondo sia un posto dove tutte le persone possano avere pari dignità e diritti. In questo si esce dal campo dell’osservazione e della deduzione che è quello dell’antropologia in senso stretto, per entrare nell’azione e l’attivismo che è propugnato dalla “engaged anthropology”, o “antropologia militante” volendo tradurla in italiano. Questa si distacca dalla sola osservazione per mettere a frutto le conoscenze acquisite durante la ricerca e migliorare le situazioni di vita di individui vulnerabili dentro un determinato contesto sociale. Probabilmente la maggior parte di chi si occupa di antropologia oggi affronta la disciplina in questo modo.
La ricetta iniziale che si potrebbe proporre allora da engaged anthropologist contro la violenza simbolica è sempre quella: ascolto, discussione e compromesso. Ovviamente l’adolescente incazzuso vorrebbe svegliarsi la mattina e guardarsi soltanto gli anime e MTV (sì, stiamo parlando di un adolescente di dieci anni fa). Ed ovviamente i genitori hanno diritto a sentire Mentana che li aggiorna sulle ultime news. Finché le due parti però si arroccano sulle loro posizioni nessuno dei due andrà da nessuna parte e la tensione non farà che crescere. Nella ricerca dell’accordo non bisogna però dimenticare che le due parti non partono da un punto di parità: se l’obiettivo è infatti arrivare ad una società equa le rinunce di chi è in una posizione di potere dovranno tendenzialmente essere maggiori, oltre che ad essere tendenzialmente ininfluenti o marginalmente influenti per il proprio stile di vita.
Questa sera quindi, prima di mettervi a guardare la tv, laddove ovviamente non si guardi ognuno Netflix per i fatti suoi, fermatevi un attimo a discutere. In tempi prima di internet alcune famiglie adottavano un calendario in cui ognuno poteva decidere cosa guardare in base al giorno della settimana. Quello è un ottimo punto di partenza. L’importante è che si discuta pronti a cambiare le proprie posizioni. Per quanto più piccoli di età anche i bambini sono delle persone e conoscono molto bene ciò che piace loro. Basta non rifiutare automaticamente la loro posizione solo per la fonte in quanto tale. Idem, altre persone soggette a violenza simbolica non sono bambini e la loro voce conta. Riccardo
Per approfondire:
Bourdieu, P. (2001) La Distinzione. Critica sociale del gusto, Il Mulino
Riva, M., Alcune note sulla “Violenza Simbolica”, OttoCentro, online
L’antronauta, Violenza Ostetrica, podcast