Il “ventennale di Genova”, la ricorrenza dell’anniversario delle mobilitazioni popolari, sociali, di ampi spaccati giovanili e di vasti settori del lavoro, che hanno animato la traiettoria del cosiddetto “movimento dei movimenti”, che hanno segnato la scena politica di quel frangente incisivo a cavallo tra gli anni Novanta e il nuovo millennio, che hanno dato luogo ad iniziative e manifestazioni, sollevazioni e proteste di chiaro segno anti-capitalista e anti-liberista (no-global e alter-global, come si diceva e si scriveva) costituisce, indubbiamente, una circostanza inevitabile per una riflessione politica. Doverosa per chi c’era, anzitutto: per quanti e quante la hanno attraversata come tappa di un ciclo di lotte e mobilitazioni e per quanti e quante la hanno vissuta come un vero e proprio luogo di formazione politica (la cosiddetta «generazione di Genova»). Ma doverosa anche per chi non c’era, dal momento che ancora ricordiamo le manifestazioni anti-capitaliste del 2001 e le manifestazioni pacifiste del 2003 come le ultime grandi mobilitazioni di massa effettivamente capaci di affermarsi nello spazio pubblico in maniera significativa e di declinare di conseguenza, in termini politici, su una base di massa appunto, parole d’ordine di partecipazione, di eguaglianza, di democrazia.

Nella sfera della politica quella stagione segnò anche il leitmotiv della cosiddetta «apertura ai movimenti», quell’orientamento politico che sperimentava un approccio inedito verso l’ampia platea dei movimenti sociali che erano intanto emersi (anche) sulla scena italiana, subito dopo la stagione di Seattle, l’avvio della fase contraddistinta dall’emersione del movimento dei Social Forum (il cosiddetto “movimento di Porto Alegre”) e la connotazione politica assegnata alla relazione (non sempre lineare, non priva di contraddizioni) con ampi settori dei movimenti nel corso dell’intera stagione che, schematizzando, va appunto dalla fine degli anni Novanta (1998-1999) alla metà degli anni Duemila (2005-2006), a cavallo cioè, sul piano politico-istituzionale interno, della stagione del “secondo centro-sinistra” (il primo governo Prodi era rimasto in carica sino al 21 ottobre 1998, il secondo governo Prodi sarebbe entrato in carica il 17 maggio 2006). L’uno e l’altro, per di più, segnati da due eventi di portata tragica e di vasto impatto: il violento cambio di paradigma dell’imperialismo contemporaneo inaugurato dalla guerra di aggressione alla Jugoslavia (24 marzo 1999) e la seconda guerra del Libano (12 luglio 2006). In mezzo c’era stata la seconda guerra del Golfo, la guerra all’Iraq, del marzo 2003, in ragione della quale milioni di persone in tutto il mondo si mobilitarono nelle strade e nelle piazze, ai quattro angoli del Pianeta, per gridare il proprio «no alla guerra, sì alla pace», in un movimento di massa (contro la guerra e per la pace) che il New York Times definì «la seconda potenza mondiale» (cento milioni di donne e uomini in piazza in 600 città in cinque continenti).

L’irruzione, sociale e politica, del “movimento dei movimenti” fu dunque, si può dire, il prodotto, tra le altre, di tre tendenze. La prima fu la sostanziale presa d’atto dell’irrompere sulla scena politica e sociale, a livello trans-nazionale, di un nuovo attore pubblico che, non più esclusivamente espressione di società civile, veniva a costituirsi come soggetto antagonista rispetto alle dinamiche proprie della mondializzazione del capitale, esprimendo una tensione anti-capitalista che, sovente espressa in forme simboliche, radicali e coinvolgenti, estemporanee e suggestive, pur era in grado di rappresentare in maniera schematica ed efficace, lampante e auto-rappresentativa, i principali obiettivi della critica al sistema (logica di guerra e accumulazione, potere delle multinazionali, carattere intrinsecamente anti-democratico dei consessi decisionali internazionali, soprattutto nell’ambito della regolazione economica, finanziaria e commerciale, come dimostrava l’azione, politica e simbolica, contro i “santuari” del capitalismo trans-nazionale, l’IMF, il WTO etc.). La seconda venne ad essere la consapevolezza della convergenza, potenzialmente rivoluzionaria, che si andava compiendo tra istanze di liberazione generale e di emancipazione sociale, come nel caso della insurrezione zapatista del Chiapas, che, con la rivolta e la marcia del Capodanno 1994, può essere considerata la vera e propria “epifania” del movimento mondiale, almeno nelle fattezze di cui si è poi venuto connotando, e le formazioni sociali politicamente più consapevoli di quello che si veniva affermando come “movimento di Porto Alegre”, che sapeva includere al suo interno anche storiche esperienze di resistenza, come quella dei Sem Terra piuttosto che segmenti di lotte indigeniste del subcontinente latino-americano. E infine, non ultima per importanza, la disponibilità di una soggettività politica nuova ad affermarsi e rappresentarsi in termini di soggettivazione e di autonomia, al tempo stesso più sensibile alla ricezione di questa nuova fermentazione sociale e politica, perché più incline a vedere in essa una manifestazione di affinità (rivoluzionaria) o perché venutasi formando, sotto il profilo generazionale, nella medesima temperie storica e politica che aveva prodotto quella mobilitazione.

La coniugazione di “vecchio” e “nuovo” (la simultanea presenza, tra le tendenze e gli “stili” di azione e di pensiero del movimento dei movimenti, di storiche tendenze terzo-mondiste e internazionaliste e di inedite propensioni ecologiste e alter-mondialiste, insieme con una spiccata propensione alla autodeterminazione e alla sperimentazione delle pratiche politiche e delle forme della mobilitazione); la continua dissolvenza politica (la miscela, cioè, di contenuti ed ispirazioni di provenienze varie e plurali, cosa che conferiva appunto la caratteristica di eterogeneità e di pluralità che era alla base della configurazione stessa del “movimento dei movimenti”); la costante tensione trasformatrice (il movimento come vero e proprio “soggetto” della trasformazione rivoluzionaria, dove la gerarchia classica tra il «movimento» e il «fine» sembra sempre sul punto di rovesciarsi o, per lo meno, di problematizzarsi, viene costantemente riconfigurata e rimessa in discussione); sono queste forse, anche alla luce del “passo” di quegli eventi (a Napoli e a Genova nel 2001, ma anche nelle strade e nella piazze contro la guerra e per la pace del 2003, che avevano animato, in Italia, la più grande manifestazione pacifista mai avvenuta nel nostro Paese), le connotazioni peculiari di quel movimento.

Nella mobilitazione e nella dinamica del “movimento dei movimenti” si sono sperimentate pratiche (su tutte, la disobbedienza civile e la disobbedienza sociale) e si sono elaborati linguaggi: attraverso parole d’ordine quali la “sperimentazione”, l’“innovazione” e la “contaminazione” si sono esplorati componenti e aspetti di patrimoni ideologici e vettori culturali tradizionalmente estranei al patrimonio del movimento operaio e della sinistra di classe, quali la nonviolenza, l’autogestione, la messa in discussione della questione del potere, la ri-collocazione stessa della contraddizione capitale-lavoro e la nuova geografia politica dell’alto e del basso («voi G8, noi 6.000.000.000», era lo striscione del corteo del 21 luglio), della “moltitudine” vs. la classe, dell’Impero (Empire) vs. l’imperialismo.

Come ha scritto Marco Revelli, infatti, «ora che quel pezzo di ottocento proiettato nel duemila si materializzava in uno spazio, ora che si incorporava in un territorio, la “zona rossa”, appunto, fisicamente riconoscibile, irta di simboli e di aggressività, e che finiva per convivere, geograficamente contiguo, con quest’altro spazio ormai compiutamente proiettato – così almeno mi appariva – oltre il Novecento, aperto, informale e libero, lo spazio fuori dalle mura della città proibita, abitato da un’umanità ormai pienamente cosmopolitica, transnazionale, trasversale; ora che questo dislivello temporale assumeva pienamente forma spaziale, riproducendo una città duale, spaccata tra passato e futuro, e permetteva di misurare tutta la distanza, e contabilizzarla sulle cifre agghiaccianti del mal-governo del mondo, di un pianeta lacerato da distanze economiche e sociali abissali, era impossibile sfuggire all’emozione. Non interiorizzare emotivamente quella fisicità dei simboli. Estremo esempio di “eterogenesi dei fini”, che finisce per rovesciare l’ultima festa d’ançien régime fatta e concepita per produrre consenso in una pericolosa macchina simbolica di condensazione del dissenso».

Proprio da lì è venuta emergendo non solo, soggettivamente, una nuova generazione politica, ma anche, oggettivamente, una nuova articolazione del “prevalente” politico e nuove modalità di formazione politica (ispirata al motto del «camminare domandando» e al ripudio della formazione-quadri tradizionale). Il “movimento dei movimenti” era dunque destinato a rappresentare il primo movimento sociale e politico, in nuce rivoluzionario, del tempo nuovo, in grado di porre le basi per una risposta “da sinistra” alla crisi della globalizzazione, fino a prefigurare la nascita, come pure si diceva, di un “nuovo movimento operaio” («una nuova unità dell’antagonismo sociale, un soggetto sociale e politico», per dirla con Fausto Bertinotti), la costruzione di un nuovo blocco sociale di alternativa, capace di agglomerare il più vasto possibile schieramento di massa, di ispirare emancipazione ed auto-determinazione, soggettivazione e trasformazione. Un movimento che non marciava compatto nella medesima direzione, ma che compattamente avvertiva le ingiustizie del sistema. E però, questa volta, a livello globale.