Alessandro Marescotti, Presidente dell’Associazione ecopacifista PeaceLink, racconta la storia della botola che salvò suo padre Luciano durante i rastrellamenti dei nazifascisti a Voltana, una frazione di Lugo di Romagna. Lì il fronte si fermò per sette lunghi mesi prima che la guerra finisse quel 25 aprile del 1945.
“Dov’era la botola?”
Lo chiedo a mio padre, che ha compiuto novant’anni. E’ un po’ sordo e mi viene vicino. Mi fa uno schema su un foglio di carta e mostra come era allora la sua casa di Voltana. Disegna la camera da letto, il comò, sotto il comò un tappeto e sotto il tappeto eccola lì la botola.
“Si trovava sotto la camera da letto mia e di mio fratello Pippo”, mi dice. “C’era spazio solo per due persone. Ci si poteva sedere uno di fronte all’altro”.
“Avevate l’illuminazione lì dentro?”
“No, no”.
“E quant’era grande la botola?”
“Era 60×60, e si passava uno alla volta. Le pareti del rifugio le avevamo intonacate”.
“Quante volte ci siete scesi?”
“Molte”.
Chiedo i particolari della storia: “Scendevamo improvvisamente – racconta mio padre – appena venivamo avvertiti, anche al solo sospetto che stesse per scattare il rastrellamento. Magari poi la perquisizione non avveniva e nessuno entrava in casa. Ma per precauzione eravamo lì sotto io e mio padre. Un paio di volte sicuramente ci siamo salvati grazie a quel rifugio sotterraneo”.
Chi invece sceglieva la strada della fuga era mio zio, che appena veniva allertato scappava nella campagna, dove i tedeschi non lo vedevano. Correndo anche sulla neve si rifugiava dai parenti a Maiano Monti, vicino a Fusignano.
Mio padre e mio zio facevano parte della rete di Resistenza clandestina antifascista, in una delle Brigate Garibaldi. E quindi dovevano nascondersi durante i rastrellamenti.
“Ma come cominciava un rastrellamento?”
“I rastrellamenti – mi spiega mio padre – partivano dagli incroci delle strade e tutto il paese veniva bloccato. Tua nonna faceva la guardia la notte. Appena si accorgeva che si preparava il rastrellamento, veniva da noi a svegliarci. Dalle 2 alle 4 di notte lei era sempre desta: puntava la sveglia apposta. Guardava se c’erano dei movimenti. Se vedeva qualcosa noi andavamo subito nel rifugio”.
“Tutti avevano un rifugio?”
“Molti lo avevano. Non tutti. Chi non era nella Resistenza non lo aveva. Ma noi eravamo ‘resistenti’ e sapevamo che rischiavamo”.
I rastrellamenti servivano a individuare i covi dei partigiani, i renitenti alla leva, i sabotatori e i “sospetti”, quelli che in qualche modo erano collegati alla Resistenza. I rastrellamenti più rabbiosi avvenivano dopo le azioni partigiane. I fascisti avevano compilato delle “liste nere” e potevi essere in quella lista.
“Dimmi di più della botola”. La mia curiosità ritorna lì: “E se la scoprivano?”
E allora mio padre riprende il foglio di carta. Mi mostra lo schema: “Scendendo dalla botola ci sedevano nel rifugio. Avevamo una via di fuga: il porcile”.
“Il porcile?”
“Sì, avevamo costruito un finto muro. Con una spallata su quel finto muro lo buttavamo giù e sbucavamo nel porcile”.
La storia prosegue come un film: “Potevamo scappare da lì. Il muro non era stato cementato, ma solo intonacato. Nessuno avrebbe sospettato che quel muro, che confinava con il porcile, potesse essere sfondato dall’interno. Era un’uscita mascherata”. Mio padre descrive le vie di fuga: la cantina con le botti, la stalla per il cavallo, la casona dove si teneva la legna e la bicicletta. Lì sotto c’erano le damigiane con lo strutto di maiale, i vestiti buoni, le coperte, le lenzuola. Tutto nascosto.
“E che diceva la nonna ai tedeschi quando non trovavano nessuno in casa?”
“Niente. loro giravano, guardavano e andavano via”.
Ma qui spunta un particolare inaspettato.
“Un giorno un tedesco – racconta mio padre – in un momento rilassato, mi chiese se avessi un rifugio. Non gli potevo dire di no. Eravamo in buoni rapporti. Ma gli raccontai una bugia. Lo portai di fronte al camino e gli dissi che sotto la brace c’era un rifugio”.
“E lui?”
“Si mise a ridere. Sembrava crederci”.
“Come erano i rapporti con i tedeschi?”
Il discorso tocca l’animo delle persone e la guerra che trasforma anche i buoni in cattivi. E tocca mia nonna, straordinaria, empatica.
“La nonna sapeva essere materna nei confronti dei soldati tedeschi. Li trattava bene, li accoglieva come dei figli. I tedeschi diventavano cattivi se c’era un attentato, ma non erano cattivi di solito. Diventavano cattivi. La guerra ti fa diventare cattivo. A volte arrivavano arrabbiati come dei demoni, specialmente se erano feriti, ma a volte si trattenevano anche a tavola con noi. Una volta in due vennero a mangiare e ci diedero un pezzo di parmigiano. Ridemmo assieme perché non riuscivano ad afferrare gli spaghetti in brodo, non li sapevano arrotolare. Eravamo in un buon rapporto con alcuni. La nonna aveva una capacità di immedesimazione unica. C’erano anche soldati tedeschi di 15-16 anni. Una volta uno di questi ragazzi si lanciò con l’esplosivo addosso sotto un carro armato degli Alleati per farlo saltare in aria e morì. La nonna si mise a piangere assieme ai sodati tedeschi che continuavano a dire: ‘Eroe, eroe’. Era la gioventù hitleriana, resa fanatica dal nazismo”.
La mia intervista informale sul 25 aprile oggi è finita. Chiudo il notebook. C’è anche mia mamma che ascolta e che ha vissuto la guerra a Lugo di Romagna. Anche lì i tedeschi entravano nelle case. Ogni tanto mia mamma interviene. Incomincia a raccontare dei due soldati austriaci che erano nell’esercito tedesco, ma che non volevano fare la guerra. Volevano disertare e chiesero vestiti civili.
Ma questa è un’altra storia.