A pochi giorni dall’approvazione della legge anti-propaganda LGBT+ in Ungheria, migliaia di persone nella vicina Polonia si sono riversate nelle strade di Varsavia lo scorso sabato per l’annuale parata del Pride (Parada Równości). Nonostante le restrizioni per contrastare il covid-19, la marcia per l’uguaglianza si è tenuta ugualmente, anche se in forma ridotta.
Doppia radicalizzazione
La parata, giunta quest’anno al suo ventesimo anniversario, arriva in un contesto molto difficile per la comunità LGBT polacca, con l’introduzione delle “LGBT free zones”, l’arresto di diversi attivisti per i diritti civili e la continua strisciante omofobia del governo a guida PiS (Diritto e Giustizia).
Pochi giorni fa, l’Ungheria di Viktor Orbán ha approvato una legge, analoga a quella vigente dal 2013 in Russia, che equipara l’omosessualità alla pedofilia e vieta la diffusione a minori di qualsiasi materiale che affronti tematiche LGBT, inclusi programmi didattici per l’educazione affettiva e sessuale. Tra i manifestanti a Varsavia è diffuso il timore che il partito al governo Diritto e Giustizia, stretto alleato di Orbán, proponga presto una legge contro la propaganda LGBT anche in Polonia, allo scopo di troncare sul nascere qualsiasi azione pubblica per i diritti civili.
In parallelo all’inasprirsi dei toni di alcuni esponenti del governo, che hanno definito la lotta per i diritti LGBT un’”ideologia peggiore del bolscevismo“, l’attivismo nell’arco dell’ultimo anno si è fatto più assertivo, provocatorio e, sotto certi aspetti, radicale. La scorsa estate l’attivista queer Margot è stata arrestata per aver assaltato un furgone pubblicitario con slogan anti-LGBT e aggredito il conducente.
L’episodio, presto degenerato in scontri tra forze dell’ordine e militanti pro-LGBT, aveva portato ad arresti di massa e diversi osservatori avevano denunciato l’uso sproporzionato della forza da parte della polizia. La “Stonewall polacca“, e i suoi echi in tutta Europa, ha segnato quest’anno come uno dei più complessi per la minoranza LGBT polacca, costretta di fatto a rafforzare la propria strategia di lotta per essere ascoltata: “Dobbiamo abbandonare il senso di vergogna, di docilità che ci opprime, smettere di scusarci“, ha affermato la stessa Margot.
Feriti ma forti
A distanza di vent’anni dalla prima manifestazione per i diritti omosessuali nel paese, la società polacca si mostra oggi sempre più polarizzata sul tema, ma il cambiamento, in particolare tra le generazioni più giovani, appare ormai evidente e persino ineluttabile. Se alle prime manifestazioni all’inizio degli anni Duemila partecipava poco più di un centinaio di persone, alle ultime edizioni – a distanza di poco più di 15 anni – hanno aderito quasi 50mila manifestanti.
Tra i partecipanti, era presente per il secondo anno consecutivo il sindaco di Varsavia Rafał Trzaskowski, del centrista Piattaforma Civica (PO), noto per aver fatto approvare dal Comune una Dichiarazione dei diritti LGBT. Si tratta della seconda edizione patrocinata dal municipio della capitale: i precedenti sindaci, incluse le personalità di orientamento più liberale, si sono sempre rifiutati di concedere il patrocinio e l’ex presidente Kaczyński aveva addirittura vietato per due anni lo svolgimento della marcia.
La parata, oltre a chiedere una legge per le unioni civili, si è concentrata sulla necessità di adottare misure concrete per contrastare l’odio verso la comunità LGBT. La questione della visibilità e della vulnerabilità della comunità è al centro delle riflessioni degli organizzatori: “Siamo feriti, ma più forti del passato. Rispetto a qualche anno fa, siamo più visibili e rumorosi. Anche l’odio omobitransfobico si è fatto più pericoloso: vedono chi siamo, ci riconoscono“, ha dichiarato Ola Kaczorek, co-presidente dell’ONG L’Amore non esclude (Miłość Nie Wyklucza).
La sempre più spietata stigmatizzazione da parte delle istituzioni e della Chiesa ha portato ILGA Europe a definire la Polonia come il peggiore stato europeo per le persone LGBT. Di fatto, la marginalizzazione della comunità ha spinto sempre più persone a schierarsi ed esporsi per rispondere alla radicalizzazione dell’omofobia. La posta in gioco, quindi, è diventata cruciale: “Non siamo più disposti a negoziare il nostro diritto ad esistere“, hanno affermato gli organizzatori del Pride.