Nonostante subisca ancora una forte ingerenza nordamericana e tentativi di golpe, il Nicaragua resiste con tutte le contraddizioni del caso e continua a fare paura all’oligarchia. Di questo e molto altro parliamo con il giornalista Fabrizio Casari, direttore della Rivista Altrenotizie.org ed esperto del Nicaragua, dove ha trascorso 3 anni della sua vita. Ecco la seconda parte dell’intervista.
A luglio 2020 il giornalista William Grigsby Vado ha rivelato che tra il 2017 e il 2018 Washington ha versato 28 milioni di dollari alle opposizioni anti-sandiniste. Ci sono ancora ingerenze USA nella politica nicaraguense?
Ci sono fortissime ingerenze USA in Nicaragua. Senza di esse non ci sarebbero tentativi di golpe e di destabilizzazione permanente. Non solo in Nicaragua, certo, bensì in tutto lo scacchiere latinoamericano, ma in Nicaragua sono storicamente pesanti sin dal 1927. Si tenga conto che da quando il Frente Sandinista, guidato dal Comandate Daniel Ortega, è tornato al governo nel 2006, il Nicaragua è stato definito ufficialmente da Washington una “minaccia alla sicurezza nazionale degli Stati Uniti”. Dato che un paese grande come la Lombardia con sei milioni e mezzo di abitanti, un PIL al 140° posto al mondo, difficilmente risulta una credibile minaccia per un paese immenso, con oltre 300 milioni di abitanti, seconda potenza economica del mondo e prima potenza militare, si può capire quanto l’ostilità politica sia il motore unico dei tentativi statunitensi di destabilizzazione del Nicaragua.
Alla quinta colonna USA in Nicaragua, ovvero le famiglie oligarchiche, l’ultradestra e la gerarchia cattolica, oltre ai traditori del FSLN che sono la parte più estrema della destra ma che si presentano come sinistra, sono arrivati i finanziamenti statunitensi. Sono state fondate ONG e fondazioni, organizzazioni per i diritti umani e altre società fittizie proprio per ricevere il denaro statunitense. Denaro che, per la legge USA, se proveniente da enti governativi (come appunto USAID e NED) non può essere versato a singoli cittadini ma solo ad organizzazioni ed associazioni che si ritengano in linea con gli obiettivi e gli interessi statunitensi.
I fondi elargiti negli ultimi 5 anni da USAID, NED, IRI, IDI, Fondazione SOROS, ed altre fondazioni europee e spagnole in particolare, oltre che dalla UE, ammontano a circa 100 milioni di dollari. Una somma enorme in un Paese dove il salario minimo è di 200 Dollari al mese e una campagna elettorale per la presidenza costa 10 milioni di euro.
Qualche hanno fa, sul mainstream, Ortega era stato criticato per essere sceso a patti con la destra, per essersi espresso contro l’aborto “conquistando la Chiesa”. Eppure, ad oggi, non sembra che la Conferenza Episcopale Nicaraguense sia in buoni rapporti con il governo sandinista.
Chi ha criticato Ortega per aver fatto accordi con la destra sono gli ex sandinisti, che però alle elezioni erano alleati della destra. Solo che Ortega ha fatto un accordo costituzionale per la riforma elettorale (che ovunque viene fatta con la partecipazione di tutti i partiti), mentre il MRS è alleato organico della destra golpista sin dal 1994. Quanto all’aborto, è un limite oggettivo della legislazione nicaraguense ed é frutto sia di un accordo con la chiesa quanto dell’assecondamento di una cultura cattolica profonda nella stessa base del FSLN, oltre che della popolazione in generale. Ma insieme a questo si deve ricordare come con il governo sandinista il ruolo delle donne sia profondamente mutato, al punto che sono loro ad avere la titolarità dei prestiti agevolati dello stato per l’economia familiare e va sottolineato come il Nicaragua sia arrivato ad essere il 4 paese al mondo per la riduzione del gender-gap. Un risultato straordinario per un paese latinoamericano a base rurale.
La Conferenza episcopale è l’anima ideologica del golpismo e nel 2018 ha svolto il ruolo più lurido, presentandosi come mediatrice mentre dirigeva il golpe, tentando di ingannare popolazione e governo. Poi però, la popolazione ha scoperto il trucco ed ha fatto irruzione nelle chiese, trovandoci criminali nascosti, armi, medicine, vettovaglie e denaro. Alcuni sotterranei delle chiese sono stati usati per torturare e un sacerdote di Masaya ha partecipato direttamente all’omicidio di un sottotenente della polizia, bruciato vivo davanti a una barricata dai cosiddetti “studenti pacifici”.
Come ha risposto il Nicaragua sandinista alla crisi sanitaria da Covid-19?
Nell’unico modo in cui poteva. Ovvero continuando ad approntare le politiche sanitarie gratuite e di qualità, tra le quali le campagne di vaccinazione di massa a tutta la popolazione, che è oggi epidemiologicamente tra le più protette del continente. In 14 anni sono stati costruiti 18 ospedali e il Nicaragua è, insieme al Messico, l’unico paese che possiede due acceleratori in linea per la diagnosi e la cura dei tumori.
Come può la Rivoluzione Sandinista, in un piccolo Paese come il Nicaragua, fare ancora paura all’oligarchia americana?
In premessa va detto che Washington resta fedele alla Dottrina Monroe, che si regge sul motto “L’America agli americani”, intendendo con la prima il territorio che va dall’Alaska alla Terra del Fuoco e con i secondi i cittadini statunitensi. Considerano il Centroamerica e i Caraibi il loro “patio trasero”, il giardino di casa, e hanno un’idea delle relazioni politiche con gli stati che compongono la regione improntata sul modello di Porto Rico, ovvero di protettorato della colonia.
Nel merito della domanda devo dirti che ci sono diversi aspetti, tutti molto importanti, che spingono gli USA alla guerra permanente contro il Nicaragua. Sul piano ideologico c’è l’assoluta indisponibilità degli Stati Uniti ad accettare governi che non siano sudditi, non importa di quale parte del mondo si trovino.
L’aspetto politico. Nello specifico latinoamericano – e ancor più centroamericano e caraibico – il riverbero pericoloso per gli USA è geopolitico, con paesi come il Nicaragua, Cuba o il Venezuela che possono fornitre un esempio di ribellione al loro ordine coloniale. Hanno paura dell’effetto contagio sul resto del continente. Anche perché gli spettacolari risultati della politica sandinista sul piano sociale confortano l’ipotesi che, senza la pressione USA, si cresce: riduzione del 50% della povertà estrema e del 48% di quella relativa, autosufficienza alimentare, autosufficienza energetica con il 59% dell’energia proveniente da fonti rinnovabili, sanità completamente gratuita con 18 nuovi ospedali costruiti e centinaia di ambulatori medici in tutto il Paese, istruzione fino al post laurea completamente gratuita e sussidiate con materiale didattico e alimentazione degli studenti, sistema pensionistico flessibile con ingresso ai 60 anni. Sono triplicate esportazioni e si è ridotto l’import, superavit finanziario, riserve in valuta pari a 3600 milioni di dollari, per un paese che storicamente non arrivava a 100 milioni. Prestiti a tasso zero, sostegni alle cooperative agricole, case costruite dal governo per le famiglie bisognose e relative assegnazioni di titoli di proprietà. E’ il modello socio-economico sandinista, basato sulla lotta alla povertà: un sistema di economia mista che utilizza la concezione capitalista per l’accumulazione e quella socialista per la distribuzione. Un modello che sarebbe bene importare invece di combattere.
L’assetto geostrategico. Il Nicaragua ha una sua politica estera basata sugli stessi criteri di quella interna: indipendenza, autodeterminazione e sovranità nazionale. Già questi tre concetti entrano in collisione con l’idea statunitense del Nicaragua, che dovrebbe essere una estensione geografica fedele, ma a questo si aggiungono le decisioni che Managua prende relativamente alla sua crescita economica, sociale e politica.
A questo proposito si pensi al progetto della costruzione del Canale transoceanico, che renderebbe quello di Panama un passaggio obsoleto. La realizzazione del canale porterebbe il Nicaragua ad un ruolo centrale nello scacchiere internazionale e ridurrebbe di oltre 12 ore di navigazione la rotta di passaggio tra Pacifico e Atlantico con conseguente riduzione di costi per gli armatori di tutto il mondo, tanto per il trasporto merci come per il traffico turistico. Gli USA non tollerano l’idea in sé, figurarsi il fatto che l’impresa che dovrebbe realizzare la mega opera (porti, aeroporti, autostrade e insediamenti urbani) sia la Cina! Washington vede come estremamente pericolosa l’ormai progressiva presenza cinese sul mercato latinoamericano, con riverberi militari su quello venezuelano. In aggiunta a questo, il Nicaragua ospita una stazione Glonass (il GPS russo) con la quale Mosca controlla il traffico sui Caraibi e sulle due sponde degli oceani nell’area centroamericana, con l’intento di migliorare la sua sicurezza nazionale, come del resto fanno USA, Francia e GB. La paura di Washington è di una progressiva capacità offensiva e difensiva russa in quello che considera il suo “giardino di casa”, dimenticando le truppe USA e NATO ai confini con la Russia. E’ come la storia delle ingerenze russe nelle elezioni USA, denunciate da chi compra e condiziona le elezioni in quasi tutti i paesi del mondo da oltre 60 anni.
L’aspetto economico. Gli USA scaricano le eccedenze dei loro mercati interni sul subcontinente latinoamericano ed importano risorse strategiche minerarie e di suolo a prezzi competitivi e mano d’opera a bassissimo costo. Si deve ricordare che gli USA producono il 22% delle risorse mondiali ma ne consumano circa il 52%. La differenza tra i due dati va colmata col saccheggio delle risorse altrui, altrimenti il modello USA si dimostra per quello che è: un sistema che si regge solo su un indebitamento mai confutato grazie alla stampa continua di valuta, con il dominio sul sistema bancario internazionale e sugli organismi finanziari multilaterali, con il furto di risorse e l’uso della forza militare per riuscirvi. Se così non fosse, non vi sarebbero oltre 700 basi militari Usa fuori dagli Stati Uniti e un milione di soldati.
Il riflesso sull’economia interna. L’immigrazione clandestina, utilizzata come esercito di riserva nel processo produttivo (degli stati del Sud in particolare) esercita una forte pressione sull’organizzazione del mercato del lavoro; ciò porta alla riduzione di salari e diritti, aumentando la competitività di merci e servizi statunitensi sul mercato interno ed internazionale. Se nei paesi latinoamericani le politiche socialiste o anche solo di stampo keynesiano dovessero imporsi (come ad esempio in Nicaragua, con una crescita del 4,5% annua del PIL e con la più bassa percentuale di migrazione del continente), le migrazioni di mano d’opera verso gli USA si ridurrebbero drasticamente e in un ventennio potremmo assistere ad una robusta inversione di tendenza. Questo avrebbe conseguenze nell’innalzamento di salari e diritti per i lavoratori USA, riducendo così i margini di una produzione che ha ormai perso le tracce dell’innovazione di prodotto, affondata da Cina, India e Russia e tutti gli altri attori emergenti dell’economia globale, ai quali gli USA mettono sanzioni per procurarsi vantaggi commerciali e fare pressione politicamente. Ma è la mossa disperata di un sistema che, come nelle sabbie mobili, affonda sempre di più a ogni passo che muove. La destabilizzazione permanente ai 4 angoli del pianeta è per gli USA l’unica risposta possibile: trasformare il mondo in un teatro di guerre e instabilità rende la potenza militare il bene-rifugio per un capitalismo collassato, vittima della sua incapacità di fermare la folle corsa verso il dirupo. Come già molti analisti compresero a seguito della caduta del campo socialista nel 1989, gli Stati Uniti hanno cessato di essere la soluzione per gli equilibri del pianeta e sono diventati il problema.