Il corpo è stato il grande rimosso dalla filosofia occidentale[1]– con rare eccezioni come Giordano Bruno, Spinoza, Feuerbach – e, una volta dimenticato il corpo di donna, luogo della nascita, è subentrato l’orrore della morte, non più concepita come il limite naturale e complementare dell’inizio; mentre l’esorcismo contro questa irrazionale paura ha generato l’invenzione di presunti principi immortali, come il Logos, maschile ma spacciato per neutro, contrapposto alla Fysis, femminile[2]. Sulla necessità di ridare centralità al corpo nella riflessione e sulla liberazione del desiderio come strategia politica rivoluzionaria si è insistito nel secondo dopoguerra, da Wilhelm Reich ad Agnes Heller, fino a Derrida e alla sua raccomandazione circa “il farsi donna della filosofia”.

Ma ben prima lo avevano compreso le femministe. Olive Schreiner, nel suo 1890, coniò l’espressione fortunata il personale è politico. Victoria Woodhull, prima donna candidata alla presidenza USA nel 1872, scandalizzò i compagni operai del sindacato Knights of Labour organizzando pubblici roghi di biancheria intima (allora erano i busti con stecche di balena, vere e proprie gabbie di auto-tortura!).

Nel Novecento il movimento di liberazione delle donne scelse però due strade diverse: da una parte, la lotta per l’emancipazione e l’uguaglianza, il cui riferimento teorico era Il secondo sesso di Simone de Beauvoir (1949) (donne non si nasce, donne si diventa a seguito di una educazione al sentimento di inferiorità e della preclusione degli studi scientifici e della vita pubblica; la soluzione doveva essere una società androgina, ossia fondata sulla parità); dall’altra, il pensiero della differenza, che si rifaceva a Tre ghinee di Virginia Woolf (1938) (le figlie degli uomini colti avrebbero creato una Società delle Estranee, affiancata  a quella degli uomini nel combattere la guerra e la violenza, ma separata perché caratterizzata dalla differenza femminile, cioè dalla relazione circolare, dall’antiautoritarismo, dalla ricerca della bellezza). Il primo percorso predilesse dunque la liberazione di ordine culturale e politico. L’accentuazione della differenza, invece, venne assumendo una connotazione anche biologica, centrata sulla consapevolezza del proprio corpo, per esempio negli scritti di Luce Irigaray, che introdusse il concetto di ontologia dell’essere sociale sessuato[3] avviando un essenzialismo  potenzialmente pericoloso, perché suscettibile di incaponimento dogmatico entro una logica duale.[4]

Ancora una svolta avviene in Argentina nel 2015 con la nascita del movimento NiUnaMenos, Non una di Meno, e, più tardi, con #Me Too, che si battono contro il femminicidio, ma allargano lo sguardo ad ogni forma di discriminazione, assumendo il paradigma della intersezionalità: la logica duale, che contrappone l’Uno all’Altro – uomo/donna, bianco/nero, abile/disabile, eterosessuale/omosessuale, persona/animale, è fondata su pregiudizi e genera intolleranza, ossia è l’ordine simbolico che presume di avallare la più bieca violenza e ingiustizia sociale, nonché lo sfruttamento del pianeta, negli attuali sistemi sociopolitici gerarchici che si reggono sulla esclusione e sullo sfruttamento. Questa nuova posizione, il transfemminismo, non accetta dunque le categorie tradizionali legate all’identità di genere, ma propone, nella prospettiva della complessità, il riconoscimento di molteplici spazi fluidi da difendere e di identità plurali.

Al transfemminismo, il pensiero della differenza obietta che non si può assimilare la differenza sessuale, o peggio l’omosessualità, ad una malattia: torneremmo alla vetusta lettura freudiana, già superata dalla psicoanalista Irigaray! Il dibattito è aperto…. E non sarebbe così spinoso se non si fosse rovesciato sul ddl Zan, provocando una lacerazione politica – tra le donne della differenza che rifiutano la legge Zane il transfemminismo che la difende – oggi gravissima, in presenza del ricatto del Vaticano.

Sulla prevedibile opposizione dello Stato della Chiesa, in questo luogo non merita discutere, se non per ricordare che già nel dibattito in Senato del 24 maggio 1929 sull’approvazione del Concordato Benedetto Croce, laico e liberale, ebbe a definirlo monstrum giuridico. E votò contro. Abrogare il Concordato e approvare la “legge Zan”, in queste circostanze, sarebbe solo una decisione di buon senso, cosa di cui il nostro Paese difetta.

Ciò detto, non si possono trascurare alcune osservazioni in merito ai nodi problematici tuttora presenti nella legge, ma che, dopo l’ultimatum ecclesiastico, non si possono certo rinviare alle Camere, poiché la valanga di emendamenti che le destre riverserebbero sul tavolo impedirebbe l’approvazione definitiva, rinviandola sine die.

Innanzi tutto, il titolo stesso della legge, ispirato al paradigma che abbiamo definito della intersezionalità, assimila omosessuali e disabili, ossia associa in un’unica categoria sociale di soggetti deboli e bisognosi di protezione anche chi debole non è, bensì orgoglioso della sua identità.

La legge si apre, inoltre, con l’individuazione di quattro concetti giuridico-filosofici, troppo sbrigativamente assunti e non sempre condivisibili:

il sesso è individuato indifferentemente come biologico o anagrafico, generando grande confusione fra natura e cultura, essenzialismo biologico e riconoscimento sociale;

il concetto di genere, considerato manifestazione esteriore del sesso, meglio sarebbe stato dire “espressione culturale”, ma anche qui, nella distinzione fra sesso e genere, sembra affiorare la contrapposizione fra corpo e psiche di cartesiana memoria che le neuroscienze hanno smentito;

per orientamento sessuale si intendono invece le scelte soggettive;

e infine per identità di genere, l’identificazione percepita di sé.

La separazione arbitraria di questi quattro concetti, mal definiti e se mai interagenti, priva oltre tutto di qualunque giustificazione scientifica, è il pasticcio esitato dai ripetuti aggiustamenti, dettati da esigenze di compromesso politico tra i vari schieramenti e non dalla volontà di chiarire ed eliminare radicati pregiudizi.

Stesso pasticcio nell’articolo 4, proprio quello che ai vertici del Vaticano appare troppo morbido e lesivo della libertà di coscienza e di insegnamento dei cattolici! Vi si recita che resta comunque autorizzata la libera espressione di convincimenti o opinioni nonché condotte diverse dall’assunto di questa legge, purché non costituiscano concreto pericolo per la persona interessata. Insomma, io posso gridare “frocio” a un gay e prenderlo a schiaffi, purché non gli restino lividi? E i lividi dell’anima?

Quanto siamo lontani ancora dalla riabilitazione filosofica e religiosa del corpo e della sua multiforme bellezza e libertà, alla quale alludeva con mossa spiazzante il maestro di yoga Aruna, quando ci rivelava sorridendo: “Io sono pansessuale!”

 

[1] Adriana Cavarero, Corpo in figure, 1995

[2] Carla Lonzi, Sputiamo su Hegel in Quaderni di rivolta femminile, 1970

[3] Luce Irigaray, Etica della differenza sessuale, 1982

[4] In Italia, ha seguito la Irigaray Luisa Muraro, tra le fondatrici della Libreria delle Donne di Milano e della rivista Via Dogana; vedi, ad es.,L’ordine simbolico della madre, 1991