Dodici anni fa, un colpo di stato civile-militare rovesciò l’allora presidente Manuel Zelaya e diede inizio a una delle crisi più profonde della storia recente dell’Honduras.
L’oligarchia honduregna, protetta dalle forze repressive dello Stato e da una classe politica vorace e corrotta, con l’approvazione subdola dell’imperialismo statunitense, sferrò un colpo mortale alle istituzioni, trasformando l’Honduras in terra di nessuno dove chi riempiva le piazze e lottava per le strade era catturato, torturato, assassinato, fatto sparire.
A partire da quel 28 giugno 2009 è stata resistenza contro il ‘golpe’ e contro i suoi progetti di morte. Strumenti di un modello neoliberista estrattivista predatorio e neocoloniale, che offre pezzi di Paese al miglior offerente, che svende beni comuni, che arma le mani degli assassini, che schiaccia sotto il peso dello stivale (militare) le aspirazioni di chi difende i territori ed esige di essere consultato, di chi propone rifondare la nazione attraverso un’assemblea nazionale costituente, originaria e popolare.
Donne, uomini, giovani, lavoratori e lavoratrici, organizzazioni indigene, nere e contadine, sindacati, insegnanti, movimenti sociali e popolari, studenti. Migliaia di persone si sono mobilitate, hanno resistito e combattuto. Molti hanno offerto la loro vita, altri sono andati in esilio. Tantissimi sono fuggiti verso gli Stati Uniti.
Ciò a cui assistiamo oggi in Honduras non è altro che la continuità di quella rottura del filo costituzionale, con il suo fardello di saccheggi e razzie di territori e beni comuni, sotto l’egida di una vergognosa strategia di accumulazione per spoliazione.
L’accelerazione imposta in questi giorni alle Zone di impiego e sviluppo economico (Zede), meglio conosciute come ‘città modello’ (charter cities), non è altro che l’ennesimo pilastro di questa strategia di alienazione del territorio nazionale.
Vittime del terrore
E le vittime rimangono sempre le stesse: popolazioni indigene e famiglie contadine espulse dai loro territori, lavoratori sfruttati e senza diritti, difensori dei diritti umani perseguitati, criminalizzati, messi in galera, assassinati, giovani senza futuro né opportunità, donne e persone LGBTI vittime di violenza e attacchi mortali.
Il risultato è che l’Honduras è diventato il paese più diseguale dell’America Latina, con fasce di povertà sempre più estese (la percentuale s’aggira intorno al 70% della popolazione) e con migliaia di persone che fuggono dalla profonda miseria, dalla violenza incontrollabile e dalla mancanza di opportunità.
È anche il paese più pericoloso per chi difende la terra e i beni comuni. Tra il 2010 e il 2019 sono stati uccisi più di 140 difensori e tra il 2016 e il 2017 sono stati registrati almeno 2.137 attacchi.
Il caso più noto a livello internazionale, quello della leader indigena e combattente sociale Berta Cáceres, ha portato un mondo distratto a volgere nuovamente gli occhi verso le atrocità commesse in Honduras, la complicità di potenti uomini d’affari e imprese multinazionali, di politici e autorità pubbliche, di banche nazionali e internazionali, di organizzazioni finanziarie multilaterali.
Più di 6.300 donne hanno perso la vita in modo violento negli ultimi due decenni (quasi 278 l’anno scorso), 389 persone LGBTI sono state uccise in poco più di un decennio e 86 giornalisti e comunicatori sono stati assassinati dal 2001.
Il 35% del territorio honduregno è in concessione e il 65% dei comuni ospita progetti estrattivi ed energetici. Ci sono più di 300 progetti energetici (approvati e da approvare) e almeno 100 progetti minerari nei territori indigeni.
Colpo di stato contro l’integrazione latinoamericana
Ma il 2009 è stato anche un ‘golpe’ contro il processo di unità e integrazione latinoamericana e caraibica e contro il sogno di un’America Latina libera dal giogo dell’imperialismo statunitense. È stato un ‘golpe’ contro i nuovi spazi multilateriali dell’Alba, Unasur e Celac; contro le esperienze dei governi progressisti (con tutti i loro chiaroscuri); contro l’idea che sia possibile pensare e creare un altro continente (latinoamericano), dove il rapporto tra i nazioni si fondi sui principi di solidarietà, cooperazione e complementarietà.
L’Honduras ha pagato a caro prezzo la sua adesione all’Alba e il suo riavvicinamento alla Bolivia plurinazionale, alla Cuba martiniana, al Venezuela bolivariano e al Nicaragua sandinista.
A 12 anni da quel tragico spartiacque, celebriamo la resistenza del popolo honduregno, la sua lotta dignitosa e instancabile, la lotta dei popoli indigeni e delle famiglie contadine, degli uomini, delle donne e dei giovani organizzati, dei lavoratori e delle lavoratrici, delle persone che difendono i diritti umani, convinti che un altro Honduras sia ancora possibile.