Siamo un po’ “Bocca di rosa”. Noi di Pressenza non facciamo i giornalisti né per noia, né per professione, lo facciamo per passione… e per etica.
Così cerchiamo di capire, ci addentriamo, a modo nostro “abbiamo tempo”. Essendo volontari, abbiamo poco o tantissimo tempo; dipende solo da noi, da quale è la nostra spinta.
In questi ultimi mesi il tema dei Centri di Permanenza per il Rimpatrio ha coinvolto diversi di noi, chi a Torino, chi a Milano. Giriamo intorno a questi luoghi, non sappiamo se come api intorno ad un fiore o come mosche attirate dall’odore di escrementi. In particolare a Milano, in via Corelli, abbiamo chiesto di entrare: visita accordata, ma che è saltata più volte, per un motivo o un altro e da tre mesi aspettiamo.
Qualcosa lo immaginiamo, qualcosa lo sappiamo. Sappiamo che lì dentro c’è un’umanità; un’umanità nascosta. E noi siamo curiosi. Ci sono gli immigrati, ma ci sono anche coloro che li sorvegliano, un direttore di una cooperativa che ha vinto l’appalto, qualche immigrato assunto dalla cooperativa, qua e là un medico o un infermiere, qualcuno che entra con un furgone coi pasti, o con la biancheria (o forse no, è di carta, basta raccoglierla e buttarla…) Ogni tanto entrano i pompieri a spegnere un incendio, ogni tanto un’ambulanza a raccogliere qualcuno caduto dal tetto o che si è fatto più ferite degli altri. E poi ci sono tanti agenti di polizia, carabinieri, militari, tanti. Si, perché non credo ci siano guardie carcerarie, le quali forse hanno un minimo di formazione e che comunque hanno scelto quel mestiere. No, ci sono agenti in divisa che speravano di fermare malavitosi, mafiosi, delinquenti, ladri e assassini. Invece devono fare i guardiani della stalla.
Questi ultimi vorrei intervistare: chiedere come passano le loro otto ore. Immagino che cosa mi racconterebbe: magari che è entrato in servizio presto quel lunedì mattina, ha formato una coppia con un collega e hanno avuto un nome su un foglio o un bigliettino. A loro due quel giorno toccava prendere uno di quegli immigrati, uno sotto il braccio da una parte e uno dall’altra e salire su un pullman, direzione aeroporto. Certo il giovane che avevano affidato loro meno male non era troppo pesante e neanche troppo recalcitrante, forse non aveva un buon odore, ma questo si sa, ci si lava poco in questi posti e poi il sudore, l’agitazione… Comunque guanti e mascherine erano consistenti. In aeroporto una trafila neanche troppo lunga; è sicuramente più lenta quando arrivano, ma quando li si riaccompagna è veloce. Meglio fare in fretta. Sull’aereo si resta uno a destra e uno a sinistra. Le manette? Non sempre sono necessarie, ma ognuno di loro le ha in tasca, nessun problema. Che i “rimpatriati” siano un po’ “intorpiditi” è possibile. D’altra parte chi salirebbe volentieri su un volo che lo riporta da dove è scappato? Gente che ha speso tutto quello che aveva, si è indebitata, ha chiesto soldi a tutta la famiglia. E ora mi rivedranno comparire lì, che vergogna…
Agenti che decollano, un’ora e 50 minuti di volo fino alla Tunisia. “Come mi sento mentre accompagno quei giovani? Male, certo, a nessuno fa piacere avere a fianco uno che piange e si dispera, alcuni fanno davvero tenerezza. Altri digrignano i denti, altri sono strafottenti, saranno i primi a ritornare. In fondo penso a quando mio padre partì dalla Sicilia e venne a Milano, i terroni non li volevano, ha mandato giù bocconi amari. Così va il mondo. Mi spiace per loro. A cosa serve tutto questo? Non lo so. Mi sembra che sia come svuotare il mare con un cucchiaio, ma questo non scriverlo…” Scaricano il loro carico di esseri umani, veloci come fossero un servizio di consegna a domicilio. Da due agenti italiani passano tra le braccia di due agenti tunisini. Una bella disinfettata e via, si torna. “Nel viaggio di ritorno di solito dormo… A Malpensa risaliamo sul nostro pullman, anche quello lo hanno disinfettato, si torna in via Corelli, risalgo nella mia auto e vado a casa ad abbracciare i miei bambini. Non so perché, ma i giorni in cui faccio quei viaggi mi mancano più del solito.”
Ho origini venete. Si dice “Xe pèso el tacòn del buso”: è peggio la toppa del buco.
Sul serio crediamo di affrontare la questione delle migrazioni così? O stiamo solo facendo un esercizio propedeutico, non tanto per “loro”, quanto “per noi”? Quanta cattiveria possiamo immettere nella società? Piccole dosi, tastando il terreno, vedendo cosa succede. Ma intanto si va avanti, si guadagna terreno nel campo della “digeribilità del male”.
E’ un laboratorio e come in tutti i migliori laboratori, meglio che non entri nessuno a carpire possibili segreti. E quindi, come giornalista, per ora aspetto fuori, ma la passione resta…
PS. Quando un contadino entra nel pollaio per prendere una gallina da mettere in pentola, scappano tutte. Come sarà il contatto tra agenti e immigrato quel lunedì mattina? Basterà chiamare il suo nome e si farà avanti?