Da anni nel nostro paese sono attive associazioni come Libera e il comitato don Peppe Diana che, lavorando sul campo ed esercitando un’intensa attività di lobbying, hanno contribuito a costruire un modello virtuoso di riutilizzo sociale dei beni mafiosi che oggi comincia a essere copiato anche all’estero.
«Può un territorio ad alta concentrazione criminale trasformarsi in territorio libero? È possibile riconvertire il capitale criminale in capitale sociale per comunità libere e solidali? Possono i cittadini attivarsi e ricostruire coesione sociale? La risposta a tutte e tre le domande è sempre “sì”. È già accaduto in provincia di Caserta, dove i beni confiscati alla camorra da simboli del crimine e del sopruso sono diventati presidio di legalità, ma anche testimoni di un modello di crescita in grado di fare economia sociale, di restituire alla comunità il maltolto della malavita e investire nello sviluppo sostenibile».
Tina Cioffo, del comitato don Peppe Diana, inizia così a raccontarmi il processo di cambiamento che riguarda il riutilizzo sociale dei beni confiscati alla mafia. Non si parla di un semplice progetto, ma di una rifondazione della coscienza civile che, grazie a questo percorso, ricostruisce fiducia.
Il riutilizzo sociale di beni confiscati alla mafia ha una storia che inizia più di vent’anni fa ed è in costante crescita e sviluppo. «Il modello di riutilizzo a cui ha sempre creduto il comitato don Peppe Diana si caratterizza per la specificità delle attività e della gestione che parte dal basso, sperimentando forme di reinserimento di persone svantaggiate ma anche rifondando la fiducia».
Oggi c’è un nuovo tassello che apre la porta a nuove opportunità per la collettività. Tale tassello è riassunto in queste righe: “È possibile il trasferimento dei beni confiscati anche alle Città metropolitane e la destinazione degli immobili confiscati per incrementare l’offerta di alloggi da cedere in locazione a soggetti in particolare condizione di disagio economico e sociale. Viene soppressa l’assegnazione automatica ai Comuni, prevista dalla legislazione vigente, con concessione a titolo gratuito ad associazioni, comunità o enti per il recupero di tossicodipendenti operanti nel territorio ove è sito l’immobile confiscato”.
Con le novità introdotte dalla legge n.132 del 2018 – di cui sopra è citato l’art. 36, co. 3, lett. a), c) – si snelliscono le procedure di gestione e destinazione dei beni confiscati. In questo modo, la rete di associazioni, cooperative, gruppi e parrocchie unite e coinvolte nella lotta alla criminalità organizzata e nella divulgazione della giustizia sociale possono continuare a tracciare un percorso nobile che non smette mai di evolversi.
Iniziò tutto nel 1995 con la nascita di Libera, quando venne lanciata una petizione a sostegno di un disegno di legge che prevedesse la possibilità di restituire spazi alla comunità togliendoli alla criminalità organizzata. Nel 1996 gli attivisti dell’associazione lanciarono e promossero, insieme a Don Luigi Ciotti, una raccolta firme a sostegno della proposta di legge avanzata da alcuni deputati. La legge 109, approvata il 7 marzo 1996, rese concreto questo percorso di sensibilizzazione, attualizzando la legge Rognoni – La Torre del 1982.
Tina Cioffo ripercorre le tappe salienti: «Negli anni molto è cambiato. Pensiamo per esempio all’iniziativa “Facciamo un pacco alla Camorra”, tra le attività promosse dal Comitato don Peppe Diana. Nel 2010 nacque come una riflessione sui temi dell’economia sociale, ma è poi diventata risposta concreta al bisogno di legalità praticata, generando un percorso strutturato e auto-sostenibile. Si consideri il Festival dell’Impegno Civile ideato sempre dal comitato don Peppe Diana per promuovere l’utilizzo dei beni confiscati ancora chiusi. Quando abbiamo cominciato lo abbiamo fatto solo a Casal di Principe, ma ora il Festival è internazionale con tappe anche in Francia e a Bruxelles».
«Si pensi ancora a Casa don Diana – prosegue Tina –, bene confiscato alla camorra in via Urano a Casal di Principe, sede del comitato don Peppe Diana. La villa che era del clan dei Casalesi e che ha poi vissuto anni di cattivo utilizzo da parte dell’Asl di Caserta, è ora un luogo di incontri, laboratori e progettazione viva. La rete sociale del Comitato don Peppe Diana, con cooperative e associazioni, è piena di esempi positivi e buone pratiche di riutilizzo sostenibile e moltiplicatore di esperienze. Nei beni confiscati si produce cioccolato, si fa formazione, si pratica agricoltura biologica, si fa cultura, si aprono biblioteche e si crea occupazione».
In questo modo si continua a dare vita a progetti sempre in evoluzione che regalano opportunità di crescita per una vivibilità migliore. Ulteriore conferma della qualità del lavoro svolto ed elemento di soddisfazione per chi da anni nel nostro paese si batte su questo fronte, è il recente aggiornamento della normativa francese sul tema, frutto di un iter dichiaratamente ispirato all’esperienza italiana.