La violenza della guerra israeliana contro la popolazione palestinese si nutre di una narrazione interna, fatta propria dai media e dalla politica internazionali, che elude e perfino ribalta il rapporto tra oppresso ed oppressore, tra aggressore ed aggredito, facilitata in questo dalla risposta armata di Hamas, funzionale all’oppressore. Una violenza culturale volta a giustificare e legittimare la violenza strutturale dell’occupazione militare israeliana e quella diretta della guerra permanente. Per questo, anche se mettessimo per un attimo tra parentesi la situazione di oppressione storica del popolo palestinese da parte del governo israeliano – e perfino le provocazioni che hanno portato a questa ennesima recrudescenza – è molto difficile accettare le definizioni di “scontro” o di “legittima difesa” quando a fronte di una decina di vittime israeliane causati dai criminali razzi di Hamas ad oggi, si conteggiano, ormai, centinaia di vittime palestinesi degli ancora più criminali bombardamenti israeliani, tra le quali decine di bambini. I libri di storia, solitamente, chiamano queste stragi “massacri di rappresaglia”.

Come ricorda Giovanni De Mauro su Internazionale (14/20 maggio 20201), nel 2013 un gruppo di sei giornalisti palestinesi e israeliani ha curato per l’International press institute una guida alla scelta delle parole intitolata Use with care: “Tutti sappiamo che le parole possono solo mediare la realtà, non definirla. Ma le parole sono anche potenti e hanno un ruolo importante nel plasmare la nostra coscienza e le nostre percezioni”, si legge nella prefazione. Invece, poiché, la prima vittima della guerra è sempre la verità – in un intreccio perverso tra metafora e realtà – i bombardamenti israeliani hanno demolito a Gaza anche il palazzo della stampa internazionale, perché nessuna testata indipendente possa raccontare la verità della guerra.

Ma in Israele questa militarizzazione dell’informazione e della cultura inizia molto prima, a scuola, nelle menti dei bambini, come denunciano coraggiosamente nella loro lettera al governo dello scorso gennaio sessanta studenti israeliani: “siamo cresciuti all’ombra dell’ideale simbolico del soldato eroico. Gli abbiamo preparato cesti di cibo durante le festività, abbiamo visitato il carro armato in cui ha combattuto, abbiamo fatto finta di essere il soldato nei programmi preparatori alla leva militare al liceo e abbiamo venerato la sua morte nel giorno della commemorazione. (…) Il percorso su cui ci imbarchiamo dall’infanzia, di un’educazione che insegna violenza e rivendicazioni sulla terra, raggiunge l’apice all’età di 18 anni, con l’arruolamento nell’esercito. Ci viene ordinato di indossare l’uniforme militare macchiata di sangue e di preservare l’eredità della Nakba e dell’occupazione. La società israeliana è stata costruita su queste radici marce, ed è evidente in tutti gli aspetti della vita: nel razzismo, nell’odioso discorso politico, nella brutalità della polizia e altro ancora” (https://www.refuser.org/refuser-updates/shministim?fbclid=IwAR05lESp028ML2Ja7x5bs8df7gLuMhSGDVIstb8Eywb2ZZ5KMILsUlDErpU ) .

Che poi questa narrazione tossica unilaterale sia fatta propria in Italia da tutte le forze politiche che sostengono il governo – e da gran parte dei media nostrani – si spiega non solo con i ranghi serrati senza se e senza ma dalla parte dell’oppressore, ma anche con il salto di qualità del commercio bellico tra i due governi, come spiega Giorgio Beretta su il manifesto (15 maggio 2121): “nel febbraio 2019 i ministeri della Difesa dei due Paesi hanno firmato un accordo per l’acquisto di sette di elicotteri AW119Kx d’addestramento avanzato per le forze aeree israeliane, del valore di 350 milioni di dollari, ancora una volta in cambio dell’acquisto da parte dell’Italia di un valore equivalente di tecnologia militare israeliana. Nel settembre del 2020 ne sono stati aggiunti altri cinque, per un totale di dodici elicotteri e due simulatori destinati alla Air Force Flight School”. Tutto ciò in spregio non solo alla Costituzione, ma anche alla legge 185/90 che vieta il commercio di armamenti con i paesi in guerra. Ma non è una novità.

E’ invece molto più onesta la presa di posizione dei giovani ebrei italiani che – analogamente agli studenti israeliani – ribadiscono che “la situazione attuale rappresenta l’apice di un sistema di disuguaglianze e ingiustizie che va avanti da troppi anni: l’occupazione israeliana dei Territori Palestinesi e l’embargo contro Gaza incarnano l’intollerabile violenza strutturale che il popolo palestinese subisce quotidianamente” e condannano “le politiche razziste e di discriminazione nei confronti dei palestinesi” (il manifesto 15 maggio 2021). Questi ragazzi di religione ebraica che in Italia dicono “non in nostro nome”, analogamente a quanto fanno gli obiettori di coscienza israeliani che non vogliono essere complici dei loro governi, e per questo finiscono in carcere, ed i gruppi misti di palestinesi e israeliani che manifestano insieme in diverse città israeliane perché “non vogliono essere nemici” rappresentano la fondamentale disobbedienza culturale – prima ancora che civile – al pensiero unico fondato sulla paura, l’odio e la violenza. Sono loro il primo seme di pace.

 

Pasquale Pugliese

L’articolo originale può essere letto qui