La tendenza all’oblio che osserviamo oggi, a rinnegare, a distorcere certi avvenimenti dolorosi, torti subiti e fatti, non vuol dire cancellare il passato ma restarne sempre più incatenati. Quel torto fatto o subito, ma non compreso, continuerà a condizionare il futuro, facendo crescere vendetta odio e rancore, nati dal non aver fatto i conti né con la storia né con la propria vita. Questa tendenza la possiamo osservare tanto nella nostra vita personale, nella narrazione che facciamo di noi stessi, tanto in quelle che si fanno della storia del sociale, dell’economia, delle migrazioni e così via.
Questa società e non solo si è proprio strutturata così: una continua compensazione del passato senza crescita positiva verso il futuro. Come si può uscire da questa continua ripetizione del passato? È possibile costruire una cultura della riconciliazione col passato e che influenza avrà questa sul presente ed il futuro?
Con il Codice di Hammurabi (occhio per occhio, dente per dente) l’individuo delega per la prima volta il suo desiderio di “giustizia” al potere del governante; ma questo, sebbene sia stato un avanzamento rispetto a forme cruente di giustizia personale o di gruppo, conserva la stessa struttura della rappresaglia e della vendetta: se ferisci qualcuno, devi soffrire anche tu un qualche “dolore” o devi risarcire materialmente il danno. Il comportamento personale inizia a essere regolato da un “codice esterno” e non da una “comprensione interiore”. Ancora oggi la forma mentale in cui vive l’essere umano, è basata su una visione vendicativa e giustizialista e così tutta la società è segnata da essa.
La motivazione alla base della vendetta non è semplicemente il danneggiamento dell’altro ma è estrarre dall’altro quell’essenza vitale che ho perso quando sono stato danneggiato, “l’occhio per occhio” oggi, non vuole l’occhio dell’altro, ma rivuole dall’altro la dignità umana che crede gli sia stata sottratta. Sembra essere un meccanismo psicologico per recuperare quell’umanità di cui penso essere stato privato. Ma il soggetto della mia vendetta, il colpevole, una volta subita la punizione vorrà a sua volta essere risarcito per ciò che ha subito, avviando così una spirale di violenza distruttiva. L’essere umano non è solo il suo passato, è anche proiezione al futuro, pertanto la vendetta scatta non solo per quello che mi è accaduto, ma anche per il danno che l’altro potrebbe causarmi se ne avesse la possibilità: è la vendetta per la mia paura del futuro.
L’essere umano configura la sua realtà presente a partire da un vissuto del proprio passato e di ciò che spera per il suo futuro. Tutto ciò non si esprime solo a livello individuale, ma in una relazione con il contesto storico-sociale, quindi in una relazione intersoggettiva. Il passato, non è mai solo memoria del singolo, ma memoria collettiva e, proprio perché la vita umana si dà in una relazione con altri, ciò che accade o è accaduto all’altro rientra nel mio campo di possibilità future. Ciò che ricordo del passato è importantissimo, poiché ci fa comprendere verso dove siamo direzionati. La tendenza sociale ad un atteggiamento individualista, non aiuta a comprendere la relazione tra il personale e la società e, quindi, neppure a comprendere che il passato è parte di una memoria collettiva che tutti contribuiamo a creare e da cui siamo influenzati. Il singolo, allora, pensa di non essere responsabile dell’insieme perché non si sente parte di questo, né considera che le sue azioni possano ripercuotersi sugli altri. Ma quante delle tematiche e dei drammi che ricordiamo sono stati veramente compresi a livello sociale?
Il modello che viene ancora oggi presentato alle nuove generazioni, attraverso un’educazione alla storia della violenza, delle guerre e del vincente, è un “modello causa-effetto”, in cui ciò che accade viene analizzato in maniera superficiale, senza considerare le concomitanze che agivano in quel momento, e soprattutto senza considerare che c’era un’intenzione umana che si dispiegava. Questo contribuisce a rafforzare la visione “vittima-carnefice”: entrambi sono nati e cresciuti in questa società, quindi la stessa ha una forte influenza nell’aver creato questa dicotomia; il torto ricevuto si vuole riparare tramite la vendetta, più che tramite una comprensione di come si è arrivati a quella situazione che non dipende solo da due “attori”, ma da un contesto generale che ha permesso quella violenza. Sarebbe interessante un cambio di sguardo legato ad un atteggiamento di riconciliazione collettiva, più che di accusa del singolo, questo si produrrebbe grazie all’instaurarsi di un dialogo costruttivo tra le tutte le parti coinvolte.
Oggi al contrario, nella società globale gli stati e i loro organismi, sono impregnati di punizione e di meritocrazia; la possibilità che il singolo diventi un violento, che possa sbagliare, che possa lavorare, che si possa curare o educare, è una sua responsabilità esclusiva: si mantiene e alimenta una visione vendicativa e di supposta colpevolezza, rispetto le occasioni che il singolo non è riuscito a “mettere a frutto” e quindi riceve una “punizione” per il suo errore. La pena di morte che è la forma massima di vendetta legalizzata (ancora presente in molti paesi del mondo tra cui gli USA) e il carcere a vita dimostrano lo stesso sguardo. Dovremmo superare il concetto di giustizia e vendetta come aspirazione personale e sociale; è necessario divulgare un modo di pensare legato alla comprensione degli eventi, alla corresponsabilità in ciò che accade; parlare di riconciliazione come unico vero strumento “riabilitativo” della storia umana.
Un altro esempio è la moderna forma di schiavitù in ambito lavorativo, con il lavoro sottopagato, quando si vive sottomessi al datore di lavoro con il ricatto di non essere retribuiti, persone sradicate e minacciate in condizioni precarie in cambio di un minimo per sopravvivere. Oggi si stima che 40,3 milioni di persone, vivano in una forma di moderna schiavitù, che alimenta la nostra società del consumo. Il modello meritocratico e punitivo si esprime anche in ambito sanitario costringendo le persone a pagare per accedere ai servizi sanitari essenziali, ogni anno più di 800 milioni di persone spendono almeno il 10% del reddito familiare in assistenza sanitaria e dopo aver pagato, quasi 100 milioni di persone cadono in condizioni di povertà estrema (meno di 1,90 dollari al giorno). Qual è la colpa che permette di non aver accesso a un bene essenziale come la salute? Anche l’educazione risente e amplifica lo stesso modello, il semplice fatto che non sia gratuita è emblema della disparità di partenza nell’accesso allo studio. Parlare di “meriti” accademici e di opportunità, senza comprendere il contesto generale che ha reso possibile a un bambino – poi adulto- di studiare e a un altro no, ci sembra paradossale. Se si instilla competizione tra le persone, se si studia sempre la storia della violenza e mai delle alternative nonviolente, non si fa altro che affermare la stessa forma vendicativa.
Ma come siamo arrivati a tutto questo? É necessario riflettere, certamente, su come è stata ed è narrata la storia sociale e personale, per poterci avvicinare ad una profonda riconciliazione che ci permetta di immaginare una società e un essere umano diversi. Nella narrazione sociale, nella narrazione di un momento storico, in quella quotidiana e persino in quella personale e biografica il narratore ha uno sguardo filtrato da un sistema di “credenze” personali o epocali che lo influenzano. Il risultato è una storia distorta; analogamente ripetere per anni storie adulterate di se stessi, della propria famiglia o cercare spiegazioni semplici alle proprie contraddizioni non aiuta nella costruzione consapevole né per la propria vita, né come sguardo verso il sociale. Conoscere il proprio paesaggio e conoscere la propria storia diventa fondamentale per interpretare se stessi e il mondo che ci circonda. Tutto è dinamico e in continua trasformazione, niente è stabilito e immutabile; inoltre è necessario tenere in considerazione la nostra concezione di tempo.
Vedere la storia come una sequenza di eventi lineari, non permette la comprensione di questi. Sarebbe molto più interessante pensare alla storia come un movimento a spirale sempre in crescendo che ci permetta di stabilire relazioni con ciò che ci accade. Se adotto nella mia vita questa prospettiva di tempo, ho la possibilità di comprendere il mio passato, non come qualcosa di separato dal mio presente ma come qualcosa che si può ripetere in nuovi cicli più ampli, ciò mi permette di ritornare, comprenderlo per superare ciò che mi crea sofferenza, per poi passare oltre; lo stesso procedimento dovremmo applicarlo sulla società: gli eventi nefasti della storia, la violenza, si superano per comprensione di ciò che è accaduto affinché questi non possano ritornare ciclicamente, uguali ma sotto altre vesti.
É necessario un salto di coscienza, che ci accompagni verso una riconciliazione con noi stessi e con gli altri, un grande cambiamento di prospettiva che libererà la nostra vita e quella degli altri.
Crediamo che la storia sia costruzione umana, ciclica e in continua crescita verso l’umanizzazione del singolo e della società stessa, è la storia del superamento del dolore e della sofferenza, della ricerca di senso che mette fede nelle continue aperture della coscienza.