Il cessate il fuoco tra Israele e Hamas è stato accolto da tutti con comprensibile soddisfazione, ma in genere, anche con ingiustificati toni ottimistici e con i soliti auspici buonisti sulla pace e sulla riconciliazione tra i due popoli in lotta, magari con la riproposizione politically correct del “due popoli, due Stati”. Troppo bella per essere vera!
La verità è che, oltre le ipocrisie e gli “idealismi”, tutti sanno che la tregua è solo una parentesi in un conflitto che dura da più di settant’anni e che continuerà senza fine, fintanto che non ne saranno rimosse le cause. Ma anche sulle cause si tende spesso a perpetrare l’inganno attraverso la logica della equidistanza: “tutti buoni e tutti cattivi” e la speranza della “buona volontà” che metta da parte i rancori del passato. Modi di fare e pensare del tutto inutili. Anzi , mi correggo: facendo di ogni erba un fascio, utilissimi alla causa del più forte, che ovviamente è Israele.
Ora, sulle cause del conflitto noi non nutriamo alcun dubbio. L’origine di tutto sta nella logica sionista di dominio e sopraffazione, che caratterizza, in modo “strutturale” nella sua stessa genesi storica, lo Stato di Israele, e che si è invariabilmente caratterizzata nel tempo, e in barba alle innumerevoli risoluzioni dell’ONU, come politica di annessione territoriale e di apartheid e pulizia etnica nei confronti dei palestinesi, costretti a vivere in zone recintate da muri e filo spinato e senza neppure i diritti riconosciuti in sede internazionale alle zone militarmente occupate, oppure come “cittadini arabi” dello Stato di Israele con diritti fortemente limitati, in un’ottica generale e strategica che è quella che definirei di “lento genocidio”.
Precisiamo inoltre che non vale, a questo proposito, l’obiezione delle politiche estremistiche ed integraliste di Hamas, che sarebbero speculari a quelle israeliane. La disparità delle forze in campo è abissale e il successo di posizioni estreme,e non condivisibili,nel campo palestinese può anche essere letto come prodotto della disperazione. I razzi di Hamas, a parte il cordoglio – che non deve conoscere bandiera – per le vittime, sono militarmente insignificanti e servono solo a giustificare le politiche criminali di Israele, la quale non a caso strizzava l’occhiolino agli integralisti quando il nemico principale era l’OLP, l’Organizzazione per la liberazione della Palestina.
L’unica soluzione del conflitto, dunque, non può che essere la sconfitta di Israele, come fine della logica sionista. Sconfitta che per essere produttiva di pace e riconciliazione, dovrà essere definitiva e senza appello, e nei modi di quello che io definisco un “passaggio catastrofico” della storia.
Prima che qualcuno fraintenda è bene che io precisi esattamente cosa intendo dire. Per farlo sarà necessario spostarsi su un piano più generale e più astratto. È noto che per Stato si intende l’esercizio di una sovranità su un popolo in un territorio. Per semplificare ai fini del nostro discorso, tralasciamo il territorio e precisiamo che intendiamo “popolo” non nel senso forte di “identità etnica o razziale”, ma in quello debole di “insieme di tutti i cittadini” o “insieme dei sudditi”, a seconda della natura del sovrano (dittatura, democrazia, totalitarismo etc). Tutta la storia di uno Stato può essere vista, infine e semplificando ancora, come il farsi nel tempo del mutevole rapporto tra sovrano e popolo. Le forme di questa dinamica possono assumere (anche qui semplificando) due differenti caratterizzazioni generali del cambiamento. Possono mutare, e mutano in effetti, o le “politiche di governo” o molto più raramente “gli assetti costituzionali”. Mutano i governi quando, per esempio nei regimi democratici cambiano le maggioranze e i programmi politici, ma sul lungo periodo muta a volte anche il rapporto costituzionale tra sovrano e popolo, nel senso che mutano i “valori fondativi” delle relazioni politiche e sociali e i relativi “assetti istituzionali” (a prescindere da altre forme di disciplinamento e controllo sociale che qui non ci interessano).
Questi mutamenti costituzionali sono ciò che possiamo definire “passaggi catastrofici” della storia per una duplice ragione. Da un lato perché essi sono spesso il frutto di eventi che evocano il significato comune e negativo del termine “catastrofe”. Si pensi per esempio agli eventi drammatici che hanno segnato nel nostro paese il passaggio dalla “monarchia albertina” al regime fascista, e da questo alla Repubblica democratica. Ma anche catastrofe nel senso originario ed etimologico di “rivolgimento”, e cioè di mutamento radicale, anche senza l’esprimersi necessario dei disastri della storia, come per esempio nel caso del passaggio senza spargimenti di sangue, ma pur sempre “catastrofico”, nel senso qui delineato, dal Sudafrica dell’apartheid al Sudafrica democratico.
Apparirà a questo punto chiaro, almeno in prima approssimazione, cosa intendiamo dire quando sosteniamo, senza alcuna esitazione, che la sola soluzione strategica di tutti i problemi è la SCONFITTA CATASTROFICA DI ISRAELE E DEL SIONISMO. Intendendo in questo modo significare un cambiamento che a questo punto non potrà riguardare semplici scelte di governo, ma un mutamento degli stessi presupposti costitutivi e valoriali che da sempre caratterizzano le scelte e le pratiche dello Stato di Israele.
Ma che sia chiaro: Non c’è nella nostra ipotesi nessun pregiudizio discriminatorio nei confronti degli ebrei di Israele. L’Italia e la Germania sono letteralmente rinate con la fine del fascismo e del nazismo e il citato Sudafrica ha guadagnato molto con la fine dell’apartheid. Dirò di più: Nessun esito positivo delle “catastrofi”, come cambiamenti radicali e irreversibili, è possibile senza un profondo mutamento delle credenze, degli atteggiamenti e dei valori fondamentali che hanno caratterizzato il “soggetto collettivo” che ha in qualche modo sostenuto e reso possibile, anche solo attraverso la sua neutralità, il prodursi del regime costituito che giunge poi alla fine del proprio cammino storico. C’è una profonda differenza tra l’italiano medio dell’età fascista e l’italiano medio dell’età repubblicana. Lo stesso dicasi per i bianchi sudafricani tra il prima e il dopo apartheid.
Detto in altri termini: non ci sarà alcuna vera sconfitta di Israele e del sionismo se questa non passerà, prima o dopo, anche da un radicale cambiamento di prospettiva da parte della maggioranza degli ebrei israeliani, nel pieno rispetto del principio di autodeterminazione dei popoli. Senza cioè che quelle frange e quei movimenti antisegregazionisti, o anche solo pacifisti, che sono oggi minoritari nel mondo ebraico, non assumano ben altra forza e significanza politica, divenendo infine in qualche modo maggioritari. Cosa che tuttavia, allo stato delle cose, credo possibile solo grazie all’eventuale “aiuto” e alla spinta prodotti da mutati rapporti di forza a livello globale.
Se la sconfitta di Israele e dei suoi dis\valori sionisti sono la sola vera soluzione strategica del conflitto, occorre dire anche che questa prospettiva è oggi lontanissima. Sarebbe necessario, perché le cose cambiassero veramente, che la condanna delle pratiche di segregazione e di pulizia etnica di Israele fosse unanime e senza appello di fronte alla coscienza comune del “cittadino globale”, non solo da un punto di vista politico, ma anche, e direi anzi soprattutto, dal punto di vista della riprovazione etica, in modo da costringere, anche controvoglia, gli Stati e le élite mondiali ad assumere misure di totale condanna e isolamento dello Stato di Israele, come avvenne nel già citato caso dell’apartheid sudafricana. Ma le cose non stanno così e l’evolversi della situazione e Il punto d’arrivo di questo percorso sono oggi di difficile prefigurazione. Cosa vuol dire sconfitta catastrofica di Israele? Forse una distruzione-ricostruzione di Israele sulla base di una rifondazione dei suoi presupposti valoriali. Forse la vecchia ipotesi, oggi del tutto irreale, dei due Stati. O magari, chissà, la prospettiva futuribile (forse anche oggi utopica) di comunità inclusive fondate sull’autogoverno e su relazioni orizzontali che superino la stessa logica statale del rapporto di potere tra sovrano e popolo. Tutto si può ipotizzare e tutto è possibile, ma tutto è ancora molto lontano.
Quello che oggi possiamo fare è avere chiaro il nemico e avere chiare le prospettive, per quanto lontane esse ci possano apparire: Condanna politica senza appello e senza remore di Israele. Rendere note le sue pratiche segregazioniste e di genocidio e battersi per una diffusa e generalizzata ripugnanza etica contro di esse. Sostenere le opposizioni interne al mondo ebraico, per quanto deboli ci possano apparire. Ma soprattutto avere chiaro che senza il precipitare di un punto di caduta catastrofica dello Stato sionista, alla lunga e in fin dei conti, nulla potrà cambiare. Il che significa nessuna mediazione e nessun compromesso che abbia significato strategico o che riguardi la messa in discussione dei nostri valori di libertà, uguaglianza e vicinanza solidale tra gli uomini, i popoli e le comunità.