Per arrivare dal referente dell’accampamento prendiamo uno dei tanti vicoli della bidonville; ad ogni angolo si presenta uno scenario diverso. Cumuli di pesci appena pescati giacciono ammassati ai piedi di un albero, anatre e galline corrono ovunque starnazzando, ma nonostante la confusione che può apparire in un primo momento, tutto ha un suo ordine: una parte dell’accampamento è destinata alla riparazione delle piroghe, un’altra a mestieri più casalinghi. Solo i bambini, che sono dappertutto, fanno da collante in questo mosaico di vite.
Mohamadou, responsabile di questo posto e considerato da tutti alla stregua di un capo villaggio, si trova nella casa della sua seconda moglie. Sorriso sdentato e aspetto stanco, ci accoglie seduto su una sedia in plastica dall’aria decisamente poco stabile. “Questo insediamento – inizia a raccontare – risale a più di cinquant’anni fa. I miei nonni costruirono le prime case e un po’ alla volta le famiglie sono aumentate; oggi ce ne sono circa centoventi”.
Con le figlie ai suoi piedi e la moglie che non ci perde d’occhio un secondo, Mohamadou nel parlare di questo fetido angolo di Bamako sembra quasi un re.
“Quando qualcuno si trova in difficoltà fra le acque del fiume, ancor prima che arrivi la guardia nautica, c’è un bozo pronto a salvarlo. Noi cresciamo con i piedi nell’acqua!”, sorride il capo villaggio. “Negli anni le cose stanno cambiando però, le piogge si fanno sempre più forti e le nostre abitazioni crollano sotto il peso dell’acqua”.
Con i temporali, oltre all’acqua, nelle loro abitazioni entrano anche i rifiuti: “Spesso e volentieri l’immondizia viene lanciata direttamente nel fiume e con le inondazioni ci rientra in casa”, spiega scoraggiato Mohamadou.
“Un tempo potevamo scorgere gli ippopotami transitare lungo il Niger, ma da quando la gente ha iniziato a costruire lungo le sponde se ne sono andati. Adesso è raro vederli”, continua. Anche per questo la composizione della fauna fluviale sta cambiando. Ippopotami, pesci, uccelli, la lista delle specie scomparse dal fiume è lunga. Interi tasselli di un ecosistema fluviale unico andati persi.
“Per noi la pesca è tutto”, va avanti il capo villaggio. “Ad occuparsene sono gli uomini, mentre le donne puliscono il pesce, lo affumicano e lo vendono”, spiega indicando una signora, bambino legato alla schiena e catino colmo di pesci sulla testa, diretta verso l’arteria stradale più grande di Bamako dove passerà tutta la giornata in attesa di vendere la preziosa merce.
Dei pescatori di Bamako si parla poco e ancora di meno si trova in letteratura. Vivono silenziosi, invisibili ai più e in condizioni ai limiti della dignità umana, ma riescono tuttavia a rifornire quotidianamente di pesce i mercati locali.
Un bambino bozo che non parla francese perché non va a scuola, racconta in bambara che tutte le sere parte in piroga con il padre. “Gettiamo le reti all’imbrunire. È più facile che i pesci abbocchino con la tranquillità della sera”, ci racconta con un’espressione da grande, mentre infilza meticolosamente dei piccoli lombrichi che finiranno in acqua assieme alla rete.
Oltre che con i reflui e i rifiuti, le famiglie bozo devono fare i conti anche con un altro male: la penuria alimentare. Alla domanda “Quanti bambini ci sono nel campo?”, il capo villaggio risponde amaramente: “Impossibile contarli! Alcune famiglie hanno anche dieci figli e a tutti manca un apporto costante di riso, miglio e kaba, il mais. Ne abbiamo per appena un pasto al giorno, per non parlare di frutta e verdura. Cibo da ricchi”.
Mohamadou, il capo villaggio, ci lascia con questo sfogo personale: “Noi bozo non siamo più felici come un tempo, non abbiamo neanche i soldi per comprare una rete da pesca. Mio fratello è pescatore, sai quanti pesci ha portato a casa ieri?”. La risposta arriva dopo un sospiro che sembra non finire mai: “Due”.