Francesca nasce e cresce a Bologna, studia e diventa infermiera. La questione dei migranti da sempre la tormenta e la affascina. Nel frattempo lavora in città, con i malati di AIDS. Nel 2014 con due amiche percorre in bici in 23 giorni un tragitto che va dal Nord della Puglia fino alla Sicilia a Porto Palo, per ricordare quella strage avvenuta al largo delle coste siciliane 18 anni prima, nel 1996.
Queste tre amiche percorrono 80 km al giorno, nel caldo di agosto; per fortuna un amico in auto le appoggia. Hanno organizzato tutto molto bene: lungo il tragitto incontrano realtà locali, giovani, raccolgono firme, cercano di sensibilizzare, ricordare quei morti in mare e i danni di una politica migratoria inesistente o criminale. Incontrano quei pescatori che per anni hanno salvato vite, ma soprattutto raccolto corpi in mare, chiamandoli “tonni” per evitare di essere denunciati e bloccati. Quei pescatori sanno tutto. Francesca e le sue amiche scoprono che il Sud è presente e sensibile, l’accoglienza nei loro riguardi è calda e affettuosa.
Francesca torna a Bologna, ma è inquieta, vede i migranti, assiste (come tutti noi italiani) a quelle che non esita a chiamare “deportazioni”, non riesce a stare a guardare. Un paio di anni dopo parte per la Tanzania: vi resterà per 4 mesi a lavorare in un piccolo ospedale a Nkololo, reparto infettivi. Cercano di mappare nella regione le persone affette da HIV, un lavoro duro, importante. Torna a Bologna e lavorando ancora sul tema AIDS segue le vicende di molti immigrati che arrivano già sieropositivi, alcuni sin dalla nascita. I due temi si incontrano.
Bologna, Africa… Bisogna a vedere cosa succede in mezzo. “Era il mio sogno nel cassetto”, mi dice. Cerca in rete: “Assistenza sanitaria migranti Lampedusa.” Nel giro di qualche settimana è sull’isola a lavorare. E’ il 1° marzo 2021. Da quel giorno Francesca vive a Lampedusa; non ha avuto tempo di tornare a Bologna, si è immersa.
Si, perché non si immergono solo i sub, si immergono coloro che entrano in una realtà e la vivono fino in fondo. Così Francesca da quasi tre mesi fa turni su turni, rimbalza dalla semplice struttura sanitaria di accoglienza sull’isola, alle navi della Guardia Costiera o della Guardia di Finanzia; è stata anche un mese filato in una nave quarantena. Ogni giorno scopre qualcosa di nuovo, capisce questa realtà.
Ha visto i barchini o i gommoni arrivare dalla Tunisia o dalla Libia; alcuni andavano soccorsi, trasbordati su queste navi dello Stato italiano. In genere sono in mare da due o tre giorni; sono bengalesi, dell’Africa subsahariana, tunisini, siriani. Racconta: “Quasi sempre disidratati, si capisce subito se vengono dalla Tunisia o dalla Libia: i secondi hanno in molti casi segni di violenza, di torture, ferite sul corpo, arti rotti, le donne sono spesso state violentate, alcune hanno già dei bambini o li aspettano. Più di una volta li abbiamo visti dall’alto: erano ancora in preghiera. La loro forza e dignità è impressionante. Non c’è dubbio che scappino, sennò chi affronterebbe tali rischi? Quando arriviamo è un misto, in loro c’è di tutto, c’è una vita intera che si è schiacciata nelle ultime ore. E’ come quando noi facciamo un tuffo in mare, quel tragitto in volo dura due secondi. Il loro tuffo dura giorni, sospesi, tra i due mondi. Hanno addosso le loro poche cose, hanno venduto tutto, nei loro volti c’è stanchezza, dolore, paura, ma anche gioia nel vedere la meta vicina. Fino a entusiasmo e lacrime.
Ho visto molta umanità tra le forze dell’ordine con le quali collaboriamo, non me lo aspettavo. E’ un equilibrio strano, perché in mare ci sono queste due realtà: le navi di cui parlavo e le ONG. Ma sono proprio queste ultime che ogni tre per due vengono bloccate. Potrebbe esserci collaborazione, in fondo i nostri lavori si compensano, stimo moltissimo il lavoro delle ONG e non escludo di salire un giorno sulle loro imbarcazioni. Quando si è in mare si capisce molto.
Quando sai che un CPR e il rimpatrio sono ciò che aspetta alcuni dei migranti che accogli ti si stringe il cuore. Spesso è così per i tunisini ed è indubbio che alcuni di loro non arrivano qui per la prima volta. E’ una folle giostra.
Lampedusa è bellissima. Il suo centro di accoglienza a volte trabocca di persone. Molte hanno paura di essere rimpatriate. Ho vissuto su una nave quarantena; dopo aver già passato una durissima esperienza in mare, risalire in una barca per restarci 15 giorni non è mai bello. Sono navi enormi che possono contenere fino a 900 persone; quando ci sono stata ce n’erano circa 200. Un’umanità varia, noi eravamo impegnati su tutto l’aspetto sanitario, ma ognuno di loro sarebbe un mondo da scoprire; a bordo ci sono psicologi e psicologhe, ce n’è molto bisogno.
Tra coloro che lavorano in queste situazioni ho conosciuto persone fantastiche, in tanti e tante abbiamo voglia di cambiare le cose, è un sistema che non funziona.
Dall’altra parte la politica, lontanissima. Chi prende le decisioni non ha capito perché questa gente arrivi, quale spinta abbia e continua con una politica miope, criminale di respingimenti.”
Dimenticavo: un anno fa intervistammo Alessandra, mamma di Francesca. C’è di che esserne fieri….