Quello che segue è un racconto tratto dal libro di mia madre, Tussina Boniforti, “La memoria per il futuro”, scritto per ricordare ai suoi nipotini che le guerre sono sempre qualcosa di terribile. Racconta una delle rocambolesche avventure di suo padre Luigi Boniforti, azionista e presidente del Comitato Toscano di Liberazione Nazionale, in una Firenze ancora parzialmente occupata dai tedeschi.
Sono certo che tutti e due sarebbero contenti di questa nuova pubblicazione.
Olivier Turquet
Un pomeriggio di settembre stavamo raccogliendo schegge di cannone in giardino quando sentimmo una voce di uomo che chiamava il nostro cognome con insistenza. Naturalmente la corrente elettrica ancora non c’era e l’unico mezzo di comunicazione era la voce.
Smettemmo di giocare e si avvicinammo al cancello un po’ titubanti perché vedemmo un uomo molto magro, sporco, lacero e senza denti, ma lui ci chiamò tutti e due per nome ed allora lo riconoscemmo e cominciammo ad urlare di gioia; avevamo riconosciuto il nostro babbo! L’emozione fu indescrivibile: fra tutti e tre non sapevamo se piangere o ridere, ci abbracciammo tutti insieme, volevamo parlare, ma non sapevamo cosa chiedere per primo ed il babbo non sapeva che dire tanta era l’emozione. Nel frattempo erano arrivati i vicini, anche loro molto emozionati perché ormai era stato dato per morto. Il primo grande regalo di benvenuto fu un pacchetto di sigarette e una scatola di svedesi (così si chiamavano allora i cugini stretti dei nostri accendini, ma erano semplici fiammiferi di legno). Il babbo ne accese subito una e naturalmente cominciò a tossire come un disperato, ovvio risultato dopo tanti mesi di astinenza.
Poi, piano piano l’emozione passò, il babbo espresse il desiderio di mangiare qualche cosa e poi fare una bella dormita nel suo morbido letto pulito; noi ci rimanemmo un po’ male, ma il Babbo spiegò che era molto stanco, che aveva dolori in tutto il corpo e un gran sonno.
Infatti dormì dodici ore filate, poi ci chiamò accanto a sé, ci pregò di portargli una colazione il più ricca possibile, di preparargli un bagno anche se l’acqua era fredda e promise che fatto tutto questo avrebbe raccontato tutto quello che aveva fatto.
Dunque disse: “Al momento della fuga dalla casa di cura sapevo che avrei trovato due partigiani vestiti da postini che mi aspettavano nel giardino della villa (le suore avevano lasciato il cancello accostato). Uno dei due mi prese sulla canna della sua bicicletta e ci avviamo in tutta fretta verso il centro della città. Io avevo un gran male allo stomaco perché ero stato operato da poco per rimediare ai cazzotti presi a Villa Triste.
Bene o male arrivammo in Piazza della Signoria, dove una guardia dei nostri ci aspettava e mi fece attraversare il breve tragitto che separa Palazzo Vecchio dalla Galleria degli Uffizi. Per fortuna c’era poca gente in giro, perché la guerra non era ancora finita e le persone rimaste in città preferivano starsene chiuse in casa. Un signore molto educato ci venne incontro, mi strinse la mano e mi indicò un passaggio che mi portava direttamente al corridoio vasariano dove, guarda caso, trovai la porta aperta! La mia guida mi raccomandò di attraversare tutta la galleria a quattro zampe, perché era vero che incredibilmente i tedeschi non conoscevano quel passaggio che dalla Galleria degli Uffizi attraversa il Ponte Vecchio e passando sopra le botteghine degli orafi arriva fino a Palazzo Pitti, ma se la facevo stando in piedi potevano vedermi dalle finestre.
Ci misi ore e ore di fatica e di dolori non solo allo stomaco, ma anche ai ginocchi. Comunque dopo tanto penare ero arrivato nella zona di Firenze liberata dagli americani, ma non potevo farmi vedere perché non avevo documenti e potevano prendermi per una spia. Decisi di nascondermi nel giardino di Boboli, dove sicuramente non c’era nessuno, neanche i giardinieri, perché non c’era acqua. Avevo una gran fame, ma non avevo niente da mangiare. Mi levai la sete con l’acqua della vasca dei pesci rossi, sperando di non prendere il tifo e per fortuna trovai dei frutti ancora acerbi ma mangiabili, che mi sembrarono una vera delizia. Con delle foglie cadute mi feci una specie di giaciglio sotto un grande albero e in poco tempo mi addormentai.
Mi svegliai la mattina presto perché sentivo degli spari molto vicini ma non riuscivo a capirne la ragione perché mi avevano detto che i tedeschi avevano tutti passato l’Arno per dirigersi verso nord. Purtroppo non era vero e alcune truppe erano rimaste nella speranza di poter ancora difendere la loro posizione. Capii subito che il mio soggiorno nel giardino di Boboli poteva durare a lungo e cercai di organizzarmi al meglio, ma non era facile. Per fortuna mi accorsi che una delle tante cannelle che alimentavano le varie vasche gocciolava un poco, cosa che mi fece pensare che era rimasta un po’ d’acqua nei tubi, così accostai la bocca e cominciai a succhiare con quelle poche forze che mi restavano. Ed effettivamente la bocca mi si riempì di acqua un po’ rugginosa, ma potabile. Trovai anche un noce carico di noci fresche che non avevo mai mangiato ma che sono buonissime e con un ramo secco travato per terra riuscii a tirarne giù parecchie.
Insomma, riuscii ad intravedere una speranza di sopravvivenza! Bene o male passarono tre giorni, quando sentii una voce che quasi bisbigliando mi chiamava. All’inizio credetti di sognare, poi mi resi conto che io quella voce la conoscevo e cominciai a rispondere piano piano: sono qui sotto il noce, vieni a prendermi. Era uno dei partigiani che mi aveva portato in bicicletta fino a Palazzo Vecchio. Poi non avendomi più visto avevano cominciato a cercarmi dappertutto, in tutte le stanze di Palazzo Pitti, ma senza successo. Fu proprio a lui che venne in mente di cercarmi in giardino. Fu davvero una gioia infinita riabbracciarci e raccontarci le nostre peripezie. Purtroppo non seppe dirmi niente della mia famiglia, perché non era riuscito ad attraversare il Ponte Rosso; mi disse anche che per me non era ancora prudente tentare di tornare a casa ed era meglio se rimanevo li ancora qualche giorno. Mi sentii morire: ero al limite delle forze e avevo mal di stomaco, ma il mio amico mi consolò subito dicendomi che in serata mi avrebbe portato cibo, coperte e una pistola, in caso mi fossi dovuto difendere. Mi preparai con rassegnazione a passare ancora qualche giorno in quel magnifico giardino, che però non offriva nessun tipo di comodità ai poveri fuggiaschi come me!
La mattina dopo quando mi svegliai vidi con orrore che dal muro di cinta spuntava una gamba con la divisa tedesca. Il mio primo pensiero fu: se viene di qua sarò costretto a sparargli, ma l’idea mi terrorizzava. Avrei fatto qualunque cosa pur di evitare una soluzione così drastica; per fortuna il soldato ci ripensò e saltò dall’altra parte. Passarono così altri due giorni di stenti, di dolori allo stomaco, di freddo la notte, di paura, poi finalmente i miei compagni partigiani vennero a dirmi che potevo tentare di tornare a casa perché i tedeschi erano già abbastanza lontani.
Iniziai così il mio lungo viaggio verso casa. Non fu facile, perché i ponti non erano ancora agibili, si poteva attraversare l’Arno con delle scale e una passerella sulla poca acqua che per fortuna, essendo estate, scarseggiava. Poi dovetti attraversare il centro in mezzo alle macerie, ma quando vidi da lontano il Ponte Rosso mi sentii quasi a casa. E ora, finalmente, eccomi qui con voi!
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