Nel numero 41 della nostra rubrica #PalermoỊƞMovimento. Bloc-News della contronarrazione sociale avevamo intercettato questa nuova realtà associativa, costituita da giovani catanesi che si sono posti l’obiettivo di organizzare un movimento per la «Disoccupazione Zero» (da cui il nome del gruppo); questo il tema principale che porteranno in piazza il 20 e 21 giugno, in occasione del “G20Lavoro” di Catania: l’ambizione dichiarata è quella di dimostrare che un’altra concezione del lavoro e di “un mondo diverso è possibile, anzi necessario!”
In alternativa alle forme dominanti ed eterodirette, questi giovani pensano che il sistema produttivo debba essere rifondato da cima a fondo e che il saper fare, l’intelligenza collettiva e la cooperazione sociale debbano essere sottratti alle logiche produttivistiche accumulatrici: “il mondo del lavoro non è solo cifre, interessi, guadagni, ma è anche arte, creatività, speranza, sicurezza e felicità”.
A primo acchito, al di là dei “tecnicismi” giuridico-legislativi formalmente affinabili, l’ipotesi di un’iniziativa di legge proposta da DZ-Disoccupazione Zero, al fine di “garantire a ogni cittadino il diritto a un lavoro sicuro, stabile e tutelato, nella Pubblica Amministrazione”, può sembrare velleitaria ed ispirata a principi vetero-keynesiani (secondo il famoso adagio “scavare buche per riempirle”). Noi crediamo – invece – che la proposta-DZ debba essere approfondita e che possa essere uno strumento (anche mediante la sua ri-articolazione con altre istanze maturate nei movimenti alternativi: reddito di base, riduzione generalizzata dell’orario a parità retributiva, terzo settore, etc.) su cui costruire un tentativo di soluzione a quanto lamentato da tutti e ripetuto instancabilmente come un mantra, da quando è esplosa la crisi epidemiologica: “dopo il coronavirus la società non sarà più la stessa”.
Certo la direzione intrapresa su cui si sta avviando la rinascita del Paese non lascia ben sperare: da Conte a Draghi stiamo assistendo alla rielaborazioni di politiche economiche di rilancio del nostro sistema tutte imperniate sulla centralità dell’impresa, trainata dalle grande concentrazioni aziendali a cui affidare la guida in nome della “resilienza” del sistema capitalistico. Altro che resilienza ecologico-sociale: quella della disintermediazione del lavoro sociale necessario (dalle politiche di privatizzazione dei servizi pubblici destinati alla collettività – la tutela della salute in testa – al saccheggio estrattivo di profitto del patrimonio comune territoriale e paesaggistico) continuerà ad essere una pia illusione se affidata alle politiche neoliberiste perseguite dall’ottuse governance che dominano la scena politico-istituzionale. Basti considerare il piano di riparto delle risorse di quel PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) di fatto congegnato tutto dal lato dell’impresa. E non solo: la Confindustria, nonostante abbia affondato mani e piedi dentro la torta del Recovery Fund, continua a batter cassa, cercando di divincolarsi dai lacci e lacciuoli che “impediscono” la piena e totale libertà di manovra dell’imprenditoria: l’insistenza per la rimozione immediata del blocco dei licenziamenti, la semplificazione in deroga alla normativa vigente sugli appalti, il rilancio delle grandi opere pubbliche e la liberalizzazione cementizia nei centri storici, con l’assoluta compiacenza della compagine governativa (disposta al massimo a discutere fra le sue componenti di qualche marginale correttivo per poter piantare una qualche bandierina in vista elettorale), ci fa capire dove pende l’ago della bilancia per la cosiddetta “ripresa del paese”.
Insomma, potremmo anticipare che i temi centrali del G20L giostreranno attorno a quanto abbiamo finora argomentato. Cioè sulle “naturali” misure di libero-mercatismo sostenute dal sistema dell’impresa, improntate al gioco al ribasso del salario, fino al ripristino di forme semischiavistiche medievali, sebbene edulcorate da un apparato ideologico che assume – in apparenza – la “necessità” di rilanciare l’occupazione. In altri termini, ciò di cui si è certi – così come affermano i giovani di DZ senza ombra dubitativa alcuna – è che la passerella dei rappresentati governativi competenti per materia si tramuterà “nell’ennesimo spettacolo teatrale dove i Ministri di ogni nazione reciteranno i loro buoni propositi e le loro speranze sul futuro”. Inoltre, Disoccupazione Zero non ha alcun dubbio che al summit etneo “le aziende italiane premeranno perché il nostro paese segua l’esempio di paesi dittatoriali, privi di libertà sindacali e di salari dignitosi, dove l’essere umano viene calpestato ogni giorno”.
In definitiva la presenza in piazza di Disoccupazione Zero non sarà semplicemente un’azione di protesta contro il summit, ma l’occasione per prendere la parola e costruire con i partecipanti alla contestazione un processo vertenziale allargato, per una reale alternativa spendibile ora e subito, a partire dal patto fondamentale che regola la nostra convivenza civile, quella che pone costituzionalmente un limite all’esercizio della proprietà privata (articolo 42, COST), finalizzandola all’utilità generale allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti, e soprattutto con l’inveramento sostanziale del principio sancito dall’art. 1 della Costituzione italiana che recita: “l’Italia è una Repubblica parlamentare fondata sul lavoro”. In questo senso dicono da DZ «lo Stato si farà garante dell’assunzione di ogni cittadino, che ne vorrà fare richiesta e ne avrà il diritto, all’interno della Pubblica Amministrazione. La proposta – affermano in sostanza da DZ – ha l’obiettivo di garantire un mondo del lavoro stabile e sicuro ad ogni cittadino, aumentare le sue competenze lavorative e intellettuali, favorire l’indipendenza economica delle giovani generazioni».
Quanto viene affermato non è sic et simpliciter la ripetizione formalistica e letterale di una norma anacronistica, bensì la rilettura di un principio adatto al tempo in cui viviamo. Infatti esplicita un passaggio dettato dalla trasformazione della società, da quella (formatasi negli anni della ricostruzione postbellica) legata al cd. “pieno impiego” keynesiano (di cui sopra) a quella della piena attività. Di fronte alla precarizzazione del rapporto di lavoro, il cui “valore di scambio” ha ridotto ai minimi termini – e in moltissimi casi fino allo zero assoluto – il salario (fonte distributiva del fattore-Lavoro), l’unica possibilità per autovalorizzazione della vita umana singolare e collettiva è quella di sottrarre al mercato quell’attività sociale necessaria alla riproduzione della società. In questo senso, in antitesi alla “resilienza” capitalistica, si parla di una politica sociale e di una riforma universalistica del Welfare.
Abbiamo avuto modo di approfondire la questione con uno dei portavoce di Disoccupazione Zero, il quale tiene a precisare che il progetto, partendo dalla bozza di legge speciale disegnata (che vuole essere una traccia per iniziare la discussione), dovrà essere aperto e solidariamente espansivo verso un percorso comune dei movimento dal basso. Premesso ciò, quello di cui hanno certezza – ci dice il nostro interlocutore – è che “l’applicazione materiale del principio costituzionale presuppone profonde modifiche dell’attuale assetto della Pubblica Amministrazione”. In effetti, quella della piena attività nella PA richiede una sostanziale rifondazione dell’apparato organizzativo, prevedendo a fianco alla tradizionale attività amministrativa (produzione di atti e provvedimenti) una fase gestionale non solo diretta dei servizi universali, disintermediando le concessioni del patrimonio comune (si pensi alla vicenda autostrade), ma articolando nuove strutture tecniche strumentali, mettendo in valore d’uso sociale l’immenso patrimonio cognitivo sociale diffuso, costretto alla svalorizzazione il proprio sapere secondo logiche di competizioni pseudo meritocratiche, piuttosto che puntare sulla cooperazione di cui il lavoro cognitivo si nutre.
Così come avevamo sottolineato nella news della nostra rubrica sopracitata, sia pure in via incidentale, la piena attività garantita da un generalizzato inquadramento in un rifondato pubblico impiego democraticamente partecipato e sburocratizzato, determinerebbe: l’assicurazione di un reddito di base universale; la autovalorizzazione del lavoro sociale necessario al servizio della collettività (bloccando contestualmente i processi di privatizzazione dei servizi pubblici); l’introduzione de facto di un salario minimo nel sfera privata evidentemente superiore alle retribuzione erogate nella sfera pubblica e con condizioni di sicurezza adeguate, sia per la tutela dei lavoratori sia per la salvaguardia dell’ambiente e della salute generale. Ma, soprattutto, quel che determinerebbe – ai fini di una qualità della vita migliore per tutti – è l’avvio di una riduzione generalizzata dei tempi di produzione, in uno con la riorganizzazione della giornata lavorativa che non assorba più tutto lo spazio esistenziale, liberando parimenti la socializzazione dall’esponenziale produzione accumulatrice.