Lo scorso 13 dicembre 2020 mia zia Carla ha compiuto cento anni e il Comune di Milano le ha consegnato un Diploma Celebrativo, con la medaglia d’oro di Sant’Ambrogio.
Quel giorno ci siamo presentati per la consegna della Pergamena, con tutte le precauzioni “anti Covid” e la preoccupazione di non suscitare troppe emozioni in una persona estremamente fragile.
“Ciao Zia Carla, come stai?”
“Bene!” Mi ha risposto con il suo solito sguardo vigile e un accenno di sorriso autoironico… e dopo un grande sospirone ha aggiunto: ”Con tutto quello che ho passato non avrei mai immaginato di arrivare fino a qui… Credo che “lassù” si siano dimenticati di me…” muovendo lo sguardo in direzione del crocifisso che ha sulla testata del letto.
“In questo bel giorno di feste, ti devo dare un’altra bella notizia: ci siamo trasferiti fuori Milano, a Corbetta, vicino a Magenta.
A quel punto in modo assolutamente inatteso si è fatta silenziosa e il sorriso si è trasformato in una strana smorfia, più simile al “magone” che prende nel momento in cui un pensiero archiviato ormai da tempo riemerge dalle pieghe lontane di un cammino dimenticato.
Nel silenzio è sgorgata una lacrima incontenibile, solcando la lunga e profonda ruga sulla sua guancia sinistra. Dopo qualche minuto ha iniziato a raccontare:
“Ma tu lo sai, che io a Corbetta ho passato gli anni più belli e difficili della mia vita? Avevo da poco compiuto 20 anni, mi ero diplomata al Tenca ed ero diventata “maestra”: speravo di poter insegnare in qualche scuola di Milano, ma i primi bombardamenti degli anni ’40 ’41 e il bombardamento che colpì la nostra casa di Via Villoresi ci costrinse tutti (mamma Antonietta e i tre fratelli) a scappare da Milano e vivere da “sfollati” a Corbetta.
Mi ricordo ancora quando andammo, con quattro stracci, in Piazzale Baracca per prendere il “Gamba de Legn” (il tram con locomotiva a vapore che collegava Milano a Magenta ndr). Eravamo così tanti che molti dei passeggeri viaggiavano sul tetto delle carrozze o appesi alla locomotiva. Per fortuna il tram viaggiava così lentamente (la velocità media del tram era di 10-15 km/h ndr) che non c’erano pericoli. Perfino le biciclette andavano più veloci di noi.
L’unico pericolo erano i bombardamenti che prendevano di mira le linee tramviarie e ferroviarie. Non ricordo se era più la paura o la fame e rendere lunghissimo il viaggio. Quel viaggio di 20 km durò più di quattro ore. In tutto avevamo solo qualche pezzo di pane duro e due uova sode da dividere in cinque.
Finalmente, a sera arrivammo a Corbetta; in verità la destinazione era la Cascina Pobbia, una frazione in piena campagna. Ricordo ancora il profumo dell’erba e il nostro procedere in mezzo ai campi, sotto un cielo stellato.
Non avrei mai immaginato che iniziare a fare la maestra in una pluriclasse (12 bambini dalla prima alla quinta) presso la Scuola Elementare della Pobbia sarebbe diventata per me la lezione più importante della mia vita. Lì, in quei giorni di disperazione, fame e inquietudine, appresi come la “verità” dettata dalla tua coscienza possa arrivare a scontrarsi con la legge (in quel caso le Leggi Razziali). E tu che avresti dovuto insegnare il rispetto delle leggi, scopri che sarai la prima a non ubbidire a leggi sbagliate e profondamente ingiuste.
Nel fare l’appello mi resi conto che un bimbo di sette anni e una bimba di dieci non avevano risposto subito al cognome che avevo scritto sul registro. Mi avvicinai a loro e chiesi perché non rispondevano. Mi dissero che “non si ricordavano”.
I giorni successivi chiesi di parlare con i loro genitori, ma mi risposero che i loro genitori erano partiti per un lungo viaggio e loro vivevano da una zia, non meglio identificata.
Un freddo pomeriggio di dicembre li vidi vagare per le campagne di Corbetta e li chiamai. Al mio richiamo scapparono a nascondersi dentro il fienile di una cascina mezza diroccata. Decisi che era mio dovere capire cosa stesse accadendo. E li scoprii una famiglia di “sfollati” clandestini. Una famiglia di “ebrei”.
Mentre stavo per oltrepassare il cortile per andare a parlare con loro, vidi sulla strada statale 11 transitare una pattuglia di Camicie Nere. In quel momento, non per eroismo (sono sempre stata una ragazza molto paurosa), ma per lo sguardo di quei due bambini, mi resi conto che avevo solo una scelta: portarli via da lì, il prima possibile e cercare di proteggerli. Il padre mi ringraziò, la madre non volle parlarmi, ma dal suo sguardo mi fece capire il suo rassegnato quanto disperato ringraziamento.
E fu così che la nostra “famiglia” crebbe: da cinque diventammo sette e quei piccoli ebbero la possibilità di vivere, studiare, giocare liberi nel nostro cortile. Alla fine della guerra non rividero più i loro genitori, ma vennero accolti da una famiglia benestante di Milano, che li fece studiare. E oggi sono diventati lei una maestra e lui un avvocato.
Là in quelle campagne di Corbetta morì per sempre quella giovane e ingenua ragazza, studentessa del Tenca e nacque quella donna fatta di scelte e di coerenza, senza la quale forse non sarei arrivata fino a qui”.