Il fuoco è il metodo più efficace. Una volta che è tutto bruciato non si ha più dove ritornare. Farlo sembrare un incendio casuale, una tragica fatalità è la cosa più semplice. Tra le assi di legno delle baracche, gli allacciamenti precari alla rete elettrica, i fornelli a gas ricavati da bombole usate, i bambini dappertutto, il sovraffollamento, i vicoli di fango, lamiere contorte, basta una scintilla. Basta una scintilla. Col pericolo del fuoco ci si convive giorno e notte e in qualche modo ci si è abituati. E quando tutto è perduto, si ricomincia da zero, magari con l’aiuto degli organi pubblici che mettono il tuo nome nella lista di attesa infinita per gli alloggi popolari, ancora tutti da costruire, a trenta, quaranta chilometri da lì dov’eri, dal quartiere in cui hai vissuto una vita intera fin da quando arrivasti in citt&agr ave; per fuggire dalla miseria del nord-est, dai campi del semi arido, dalla violenza dei padroni della terra che ti obbligarono a fuggire per sempre. Il fuoco.
Ma anche la polizia non è da meno. La chiamano “reintegração de posse”, ossia ripresa di possesso. Il deficit urbanistico, la quantità discrepante tra tante case senza gente e tanta gente senza casa, è il brodo primordiale dal quale nascono le favelas. Molte di esse esistono da decenni e sono ormai parte integrante del tessuto urbano. Nonostante la precarietà dei servizi pubblici, le favela urbanizzate sono quartieri veri e propri, riconosciute come parte integrante della città. Scuole, ospedali, agenzie bancarie, commissariato, autobus, non manca proprio niente. Il controllo del territorio, il narcotraffico, le milizie, i gruppi di sterminio, i paramilitari, gli autobus clandestini, la fornitura di energia elettrica gas e acqua controllata e imposta dai gruppi paramiliatari, il commercio di bambini appena nati venduti alle Ong di adozione internazionale, non manca proprio niente. Dicevo dunque, che anche la polizia non è da meno. Intendevo dire che la sua azione è così efficace come quella del fuoco. Ha una tattica differente, arriva già in forze, con centinaia di uomini armati, cani feroci, ruspe. La “reintegração de posse”, una volta ordinata dal giudice, deve essere eseguita immediatamente. È raro che avvenga nelle favela già urbanizzate in cui la città circostante si è inglobata ad esse. Normalmente succede in quelle zone abbandonate in cui la gente ha costruito la sua baracca e lì si è stabilita, quasi sempre in prossimità delle grandi strade, delle linee ferroviarie, per facilitare gli spostamenti e la locomozione in città. Terreni pubblici abbandonati all’incuria, o, terreni privati usati come moneta speculativa per il mercato immobiliare, da vendere al miglior offerente solamente in caso di valorizzazione di tutta quella determinata zona.
Da piccolo agglomerato di baracche, il nuovo nucleo umano, nel giro di pochi mesi arriva a moltiplicarsi esponenzialmente, con tutti i problemi che ne conseguono, assenza di igiene, di fogna, di energia elettrica, violenza istituzionale, narcotraffico. La polizia però non vuole sapere come né perché. Se il giudice ha determinato lo sgombero di quell’area, sgomberata sarà. Arrivano armati fino ai denti, alle sei del mattino. Con i megafoni danno il primo avviso. Qualcuno cerca di organizzare la resistenza. Si erigono barricate, si preparano le molotov, qualcuno tira fuori una pistola. Informati a tempo debito da alcuni membri Consiglio Municipale di Pubblica Sicurezza, sempre al corrente degli avvenimenti, gli avvocati, militanti delle associazioni dei diritti civili, già consapevoli di tutto, si presentano al comandante della piazza con tanto di documenti uff iciali che ordinano la sospensione di ogni azione militare. La trattativa vuole tempo. Si esige la rimozione delle barricate, la liberazione della via espressa interrotta da una fila di pneumatici a cui qualcuno ha dato fuoco, si esigono i nomi degli agitatori (che non saranno forniti). I soldati si ritirano e con loro le ruspe che avrebbero raso al suole le baracche. Per stavolta abbiamo vinto.
La campagna “Rimozioni Zero”, organizzata dalle entità di difesa dei diritti umani e appoggiata dal Consiglio Nazionale di Giustizia, cominciata all’inizio della pandemia per evitare che migliaia di famiglie fossero sloggiate a forza proprio nel momento di maggior vulnerabilità, non è stata rispettata. 9.156 famiglie brasiliane hanno visto la loro povera casa essere distrutta dalle ruspe, hanno visto i loro averi venire sotterrati dalla forza cieca dei bulldozer, Almeno altre settantamila aspettano il loro turno. La vittoria effimera di una piccola favela è quello che è: una vittoria effimera, momentanea, di una piccola favela, ma per Maria, Gerson, Antônio, José – che stanotte possono dormire in casa loro – invece è fondamentale.