In questi giorni in cui si torna a parlare di flussi migratori come elemento divisivo e mai costruttivo, mi è arrivata la notizia che un giovane caro amico ivoriano è riuscito a ottenere il foglio rosa.
Vi chiederete qual è il nesso tra le due cose. Ve lo chiedete perché non sapete cosa c’è dietro quel pezzo di carta che gli consente di poter guidare un’auto nel paese straniero che lo ha dovuto accogliere 4 anni e mezzo fa. Dico “lo ha dovuto” perché questo ragazzo è arrivato con un gommone dalla Libia nell’ottobre del 2016.
È approdato a Catania scendendo da una nave umanitaria con solo quattro stracci addosso. Questo ragazzo è diventato maggiorenne nel nostro paese, ma era già uomo. Perché si cresce in fretta quando si affronta il viaggio dalla Costa d’Avorio passando dal Niger, attraversando il deserto dove vedi morire i tuoi amici di stenti e di sete anche se gli hai regalato l’ultimo sorso della tua acqua. E non va tanto meglio quando arrivi in Libia, paese sul quale ormai è stato detto fin troppo riguardo le terribili condizioni di vita dei migranti.
Infine il mare su un gommone in più di cento. In quel periodo nel Mediterraneo Centrale operavano (ancora per poco) unità militari nella ricerca e soccorso di natanti alla deriva. Una di queste aveva intercettato quel gommone e soccorso le persone che poi erano state trasbordate sulla nave Ong dove stavo realizzando un reportage. E dove ho incontrato lui.
Come tutti gli altri, anche quel ragazzo ivoriano era stanco, disidratato, spaventato, smarrito. Perché, come mi ha detto in seguito, in Europa non ci voleva venire, su quel gommone non ci voleva proprio salire. Perché voleva solo andare a cercare fortuna in Nordafrica, un po’ come facevano i nostri bisnonni meridionali che si spostavano verso nord. Per una serie di imprevisti e vicissitudini, dopo aver vissuto qualche tempo lavorando come un mulo senza prendere un soldo, su quel gommone ce lo avevano messo con la forza.
Sono passati quattro anni e mezzo dal suo approdo a Catania. Anni in cui siamo rimasti sempre in contatto e in cui ho seguito il percorso tortuoso e a tratti doloroso di questo ragazzo che – a differenza di altri – ha incontrato sulla sua strada anche tanta gente per bene che in Italia pensa al bene comune e non guarda solo il proprio orto.
E così grazie a una rete di associazioni che fanno “buona accoglienza” il mio amico ivoriano ha studiato, lavorato, faticato, superato lo sconforto dei primi dinieghi delle commissioni territoriali e lo schiaffo dei “decreti sicurezza” che gli avevano tolto anche la residenza rendendolo, per qualche mese, un invisibile.
In questi quattro anni e mezzo ha dimostrato di essere forte e onesto. Ha studiato, lavorato, alzandosi all’alba, inforcando la bicicletta, pedalando in mezzo alla neve pur di raggiungere la scuola e poi la fabbrica dove ha lavorato anche nei mesi della pandemia.
Lo ha fatto per essere autonomo, per non pesare su nessuno. E per essere ancora più indipendente ha voluto prendere la patente.
Quando l’altro giorno mi ha comunicato che aveva ottenuto il foglio rosa ero orgogliosa, felice per lui e per me. Perché è l’esempio vivente di chi arriva da un altro paese, ma non da un altro mondo. Perché è l’esempio vivente del riscatto, della resilienza, dell’immigrato che, pur non arrivando per vie legali, è un valore aggiunto per chi lo ha saputo accogliere.
L’esempio vivente della vittoria delle politiche di integrazione e del fallimento di quelle del respingimento e della costruzione di muri che fanno solo male non solo alla società, ma anche alla buona politica che giorno dopo giorno si perde nella continua costruzione di questi muri che non fermeranno mai i flussi, ma creeranno solo conflitti e disuguaglianze.