Geraldina Colotti è stata militante delle Brigate Rosse, negli anni ’70. È stata arrestata e ha scontato una condanna a 27 anni, ricostruendosi una vita senza per questo rinunciare agli ideali. Oggi è analista internazionale, esperta di America Latina. Su quegli anni ha scritto diversi libri di letteratura, l’ultimo dei quali la raccolta di poesie Quel sole quel cielo, edito da La Città del sole.
Qual è il tuo commento a caldo su questi arresti francesi?
Un’operazione anacronistica, inutilmente vendicativa, contro un piccolo gruppo di “pensionati politici d’oltralpe”, per riprendere la definizione di Adriano Sofri. Persone che non si nascondevano, nessuno dei quali era tornato a combattere negli ultimi anni della lotta armata, come abbiamo fatto noi. Arresti compiuti a cinquant’anni dai fatti di cui sono accusati quei settantenni, relativi a un ciclo di lotta, quello degli anni Settanta del Novecento, che si è concluso. Un conflitto per la ricerca di uno sbocco rivoluzionario alla sinistra del Pci più grande d’Europa da parte dell’estrema sinistra più forte d’Europa, che ha interessato per vent’anni l’intero paese. E che ha lasciato un saldo di oltre 5.000 prigioniere e prigionieri politici, quasi tutti condannati all’ergastolo o a lunghissime pene, alcuni dei quali sono tutt’ora in carcere. Un periodo in cui lo Stato “democratico” ha ucciso e torturato, dentro e fuori le carceri speciali, create per stroncare l’identità di quei comunisti e per “dare l’esempio”. Un periodo segnato dalle leggi d’eccezione (aggravamento delle pene, legislazione premiale, condanne per “concorso morale e psicologico” e per “insurrezione armata contro i poteri dello Stato”, ecc.), diventate poi norma nella lunga stagione dell’emergenza che continua ancora. Gli arresti di Parigi, com’è avvenuto in precedenza per quello di Cesare Battisti, esibito come un trofeo dall’allora ministro degli Interni Salvini, e ora in carcere nonostante l’età e le sue precarie condizioni di salute, rispondono a logiche politiche e anche simboliche. Da decenni, i programmi del “centro-sinistra” e delle destre si assomigliano sempre più e si ritrova sempre l’”unità nazionale” nella sempiterna “lotta al terrorismo” che porta poi a ridurre le questioni sociali a questioni di ordine pubblico. Vale per questa Italia di banchieri e grandi evasori, subalterni alla Nato e alle grandi istituzioni internazionali, come vale per la Francia di Macron che non intende cedere il terreno della “fermezza” all’estrema destra in un paese attraversato dalle contraddizioni interne di natura neocoloniale e dagli attentati di matrice islamista. Ci sono, però, vari aspetti più generali: il tentativo di distrarre i settori popolari dalla crisi pandemica, che è un altro capitolo della crisi sistemica del modello capitalista dandogli in pasto “il terrorista”; un ulteriore innalzamento del controllo sociale, necessario all’economia di guerra e alla nuova fase di illegalità internazionale imposta dall’egemonia nordamericana; la definitiva demonizzazione della storia degli anni Settanta e del comunismo come parte della grande paura provata nel secolo scorso dalle classi dominanti, per allontanare ogni possibilità che le nuove generazioni si servano di quella formidabile cassetta degli attrezzi per forgiare un nuovo pensiero e una nuova pratica incompatibile con questo sistema di sfruttamento. Un sistema devastante, che sta portando la specie umana e la natura verso la distruzione. Questa operazione, a vent’anni dall’uccisione di Carlo Giuliani a Genova durante una manifestazione totalmente pacifica, a vent’anni dalle torture nella caserma di Bolzaneto, ha quindi il sapore di un monito, e al contempo è la riaffermazione patetica di un sistema fallito.
La prima occhiata alla lista fa pensare a persone e situazioni diverse, tra l’altro, non tutte riconducibili alla lotta armata. È esatto?
Sì. Giorgio Pietrostefani, militante di Lotta Continua che è peraltro molto malato e ha 77 anni, è stato condannato per la morte del commissario Calabresi, ritenuto responsabile dell’uccisione dell’anarchico Pinelli, ma si è sempre dichiarato innocente. Altri appartengono a piccole formazioni armate degli anni Settanta, altri ancora alle Brigate Rosse.
Personalmente, non ho mai creduto né all’utilità né alla pertinenza della lotta armata; però mi pare che un giudizio storico definitivo di quel periodo di tanta violenza, e da tante parti, non sia stato dato. È così? E, se sì, perché?
È vero, non c’è stato un bilancio di quel ciclo storico affinché fosse consegnato al presente e rivisto alla luce di nuove ipotesi che possano sorgere per cambiare le cose nel profondo, com’è necessario. O meglio, il “bilancio” lo si è affidato ai tribunali, alle centinaia e centinaia di processi politici che hanno prodotto una discreta quantità di presunti esperti in ogni genere di dietrologia assolutamente priva di fondamento. E che continuano a pontificare, inquinando la verità storica e la possibilità che le giovani generazioni guardino in faccia i problemi. Versioni che nessuno si preoccupa nemmeno più di mettere alla prova di quegli atti processuali che sono costati centinaia di anni di galera e su cui sono state costruite carriere e un intero sistema emergenziale, basato su teoremi. Un apparato che si riverbera in altre forme attraverso le quali la borghesia cerca di regolare i conti a proprio vantaggio. Ogni volta che si è affacciata la possibilità di un bilancio, di approvare un’amnistia per i prigionieri politici, il cosiddetto “partito della fermezza”, sempre bipartisan ma guidato dalla ex sinistra, ha fatto muro. Anni fa è stata persino votata una legge che rende praticamente impossibile approvare un indulto o un’amnistia. Anche adesso, questa operazione-spettacolo contro i rifugiati in Francia, arriva dopo il timido pronunciamento della Corte Costituzionale contro l’ergastolo ostativo, che impone il tradimento ai detenuti per consentirgli l’accesso alla liberazione condizionale, passaggio imprescindibile per non morire in galera. Ma la storia insegna che puntare sulla rimozione non è mai un buon investimento, perché tutto il rimosso ritorna, in maniera perversa. Perché una società senza memoria, non ha futuro.