Da un certo punto di vista il condannato a morte è più fortunato di quello che deve scontare l’ergastolo, perché la morte può annullare la pena perpetua in maniera spiccia e perciò meno crudele. Invece l’ergastolo è una corsa triste, paragonata alla felicità della morte. Il politico Pietro Ingrao dichiarava: “Io sono contro l’ergastolo prima di tutto perché non riesco ad immaginarlo”. Non c‘è speranza né dignità umana senza la certezza di poter finire la propria condanna, giusta o sbagliata che sia. Molti non sanno che con questa terribile condanna si raggiunge il confine dell’inesistenza, perché la vita non vale più nulla e viene resa peggiore della morte. Si è vero, ogni pena lunga fa male, ma la condanna all’ergastolo distrugge ancora di più perché ammazza anche la speranza.
Ecco la terza testimonianza di un ergastolano:
Vengo dalla terra nella quale fu combattuta la prima guerra punica. Io non stavo né con Annibale né con Scipione, volevo solo restare siciliano. Ma non mi fu concesso e sto ancora nelle prigioni romane. Sono nato a Catania, a due passi dal porto. Ricordo le lotte operaie, gli studenti in corteo, le bandiere del popolo… tutte rosse. Sono entrato in carcere la prima volta a 42 anni e sono ancora alla prima volta. Il mio girone è definito regime AS3. Alla domanda sul perché mi hanno condannato rispondo che non lo so. Tutt’al più l’immagino. È certo che per me non è valso il principio della “prova certa oltre ogni ragionevole dubbio”, perché di dubbi sulla mia colpevolezza ne sono stati espressi a decine, e le motivazioni per la richiesta di Assoluzione occupavano 32 pagine. È stato un giusto processo? Chi legge si risponda da sè. Finora gli anni di carcere scontati sono 27 e i mesi 6.
Non credo di poter definire perso, vuoto o vita il tempo trascorso in carcere. Io sono di religione comunista, ho rispetto per tutto. Credo che l’uomo nasca essenzialmente buono. Il marcio, la corruzione, risiedono nelle oscure regole dettate dalle classi dominanti: da chi si propone e si impone come bene, mettendo l’altro in condizioni di disagio, ai margini dell’errore. Alla domanda se preferisco la pena di morte all’ergastolo rispondo che preferisco la prima, senza dubbio. Ciò non alimenterebbe la speculazione sui soggetti detenuti e, soprattutto, eviterebbe sacrifici e sofferenze ai loro famigliari, costretti a estenuanti viaggi per dare qualche ora di affettività al congiunto, spesso residente a migliaia di km dalla propria casa; una tortura senza titolo di pena. Su questo dovrebbero riflettere i governi e i potenti.
Io non credo che un essere vivente, che sia persona, animale o pianta, dia il meglio di sé nel chiuso di una stanza. Se lo scopo della pena è quello di non uccidere la persona ma di rieducarla per reinserirla nella società, allora non sarà tanto il numero di anni il dato fondamentale. Sarà piuttosto il lavoro di risanamento che nel tempo riuscirà ad esprimere il detenuto. Certo non è da considerarsi rieducativo il ricatto confessorio. Anzi, la delazione è e rimane un sentimento rancoroso e quindi criminale.
Se l’ergastolo fosse abolito? Non saprei rispondere con dei numeri. Io credo che sia necessario cessare il clima di vendetta. Le colpe stanno da ambo le parti. Bisognerebbe lasciar parlare di più la scienza di settore: la biologia, la filosofia, l’antropologia, solo chi ha studi di tali livelli può stabilire un tempo massimo di costruzione detentiva in carcere. Io sono un somaro alfabetizzato. Non amo generalizzare. Ma per favore si smetta di dire che tutti siamo uguali davanti alla pena. A maggior ragione non sono uguali i famigliari dell’espiante: pensiamo a chi ha scarsi mezzi economici, a chi svolge lavoro precario e subordinato. Quand’è che riesce a visitare il congiunto detenuto a 1.200 km di distanza? Forse una volta ogni anno, oppure ogni due anni. Riflettano i governanti. Dalle nuvole le cose appaiono minime, ma non lo sono.