I movimenti per la liberazione animale tornano a puntare il dito contro la struttura-lager del Casteller, in Trentino, in cui sono detenuti alcuni esemplari di orsi per la sola colpa di essere tali. Assemblea Antispecista, Centro Sociale Bruno ed altre organizzazioni hanno programmato per il 10 aprile la prossima Manifestazione Stop Casteller, facendo appello ad associazioni animaliste, collettivi e tutte le realtà ambientaliste, antifasciste e anticapitaliste. Di questo e molto altro ne parliamo con Marco Reggio, attivista e filosofo antispecista che si occupa di intersezioni fra teoria queer e antispecismo e di resistenza animale. È stato tra i fondatori dell’associazione Oltre la Specie, promotore della Festa Antispecista a Milano e redattore di Liberazioni. Rivista di critica antispecista. Ha curato l’edizione italiana del Manifesto queer vegan di Rasmus Rahbek Simonsen (con M. Filippi, 2014), e il volume Corpi che non contano. Judith Butler e gli animali (con M. Filippi, 2015). Ecco la seconda parte dell’intervista.
Quali sono le stratificazioni culturali e politiche che, nei secoli, hanno prodotto la dicotomia umano- Natura generando una gerarchia?
Le teorie al riguardo sono parecchie e spesso in contrasto fra loro. Alcune ricercano un momento di “peccato originale”, da collocare per esempio nel primo neolitico, con l’introduzione della stanzialità e dell’allevamento. Altre collegano lo sfruttamento animale, l’ideologia specista che lo sostiene e l’approccio antropocentrico all’uso del pianeta esclusivamente all’ascesa del capitalismo. Penso che la questione sia più complessa. Certamente, l’accumulazione capitalistica e il colonialismo, diciamo a partire dal 1492, portano a un cambiamento di paradigma epocale che determina, se non altro, un’industrializzazione, una standardizzazione e un’accelerazione dell’oppressione dei non umani. Tuttavia, lo specismo in altre forme esisteva prima, così come il patriarcato. Possiamo dire che negli ultimi cinque secoli si è verificato un movimento di estrazione di valore da tre soggetti: la manodopera non europea (schiavi, colonie, ecc.), il lavoro femminile, i corpi degli animali non umani. Questo emerge in modo chiaro dal lavoro di Silvia Federici, per citare un’autrice che ha fornito uno dei maggiori contributi sul tema. In tutti e tre i casi, è stato necessario vincere delle forti resistenze, sterminando i non bianchi, bruciando le “streghe”, sviluppando tecnologie di contenimento degli animali, dalle enclosures (che non a caso sono un simbolo della nascita del capitalismo) fino alla selezione genetica “spinta” della zootecnia di oggi. Tutto ciò si accompagna alla costruzione di un eurocentrismo che è anche antropocentrismo e privilegio maschile: discredito e marginalizzazione delle visioni del mondo “altre”, costruzione di precisi canoni letterari e scientifici, articolazione in discipline e metodi biancocentrici, adozione della linea di pensiero cartesiana in cui il soggetto individuale maschio bianco eterosessuale elabora una visione che legittima la violenza sugli animali in quanto non senzienti, riduzione della natura a un aggregato di risorse a disposizione o, nel migliore dei casi, come un bel paesaggio da consumare con gli occhi, con i risultati ormai ben noti sul piano ecologico. A tal punto che Immanuel Wallerstein ha potuto dire che per comprendere il mondo da un punto di vista non eurocentrico sia necessario “disapprendere buona parte di quanto […] appreso dalle scuole elementari in avanti”. Il soggetto legittimato a pensare e a gestire la società è anche un soggetto adulto e abile: non bisogna dimenticare quanto questa logica sia intrisa di abilismo che si intreccia con la supremazia umana, in un binomio ben illustrato da Sunaura Taylor in Beasts of Burden. Animal and Disability Liberation, di prossima pubblicazione in italiano. Come hanno mostrato le sorelle Ko nello stimolante libro Afro-ismo. Cultura pop, femminismo e veganismo nero, la distinzione fra Homo sapiens e tutte le altre specie animali (un insieme indistinto di “meno-che-umani” che va dalle formiche agli elefanti) è fondamentale per il compimento di questo processo, perché permette di distinguere fra esseri sacrificabili e non sacrificabili, o più e meno sacrificabili. Le persone razzializzate sono animalizzate, quindi, perché la loro maggior vicinanza al polo inferiore, l’animale, è una giustificazione per un trattamento diverso dal bianco dotato di diritti e risorse.
Lo specismo impedisce di vedere gli esseri animali come fratelli, sorelli e compagn* di lotta. Basta rinunciare al nostro privilegio di specie per rendere possibile la convivenza tra umani e orsi?
Non credo sia sufficiente. Individualmente, possiamo fare uno sforzo concettuale, questo è chiaro. Ed è importante. Ma, come per tutti i privilegi, non esiste la possibilità di sovvertirli del tutto senza un lavoro collettivo. Molto concretamente: come posso rinunciare davvero al privilegio di specie? Anche tralasciando il fatto che si tratta del privilegio meno riconosciuto, più difficile da individuare, dobbiamo ammettere che è un privilegio abissale: “loro” possono essere macellati, io no. Questo è il nucleo del privilegio di specie. Se un orso disturba, dopotutto, può essere ucciso. Dobbiamo però iniziare a chiederci in cosa consista più dettagliatamente questo privilegio. Nel caso degli orsi, sicuramente si esprime nell’idea che i boschi siano prima di tutto appannaggio umano: chi intraprende un’attività di allevamento, chi costruisce una pista da sci distruggendo alberi secolari, ma anche chi vuole svagarsi facendo un’escursione, ritiene di aver maggior diritto di intervento o di circolazione sul territorio rispetto alle altre specie. Questa visione va contestata, senza illudersi che in quattro e quattr’otto si possa smantellare, e pensando che, nel frattempo, allentandone la pressione alcune misure concrete possono essere attuate. Etolog*, studios* e anche il buon senso, dicono che su quel territorio sarebbero sufficienti misure di tipo educativo e poco altro (opere di protezione di alcuni terreni, corridoi alimentari per gli orsi, cassonetti dei rifiuti non apribili già adottati, per esempio, in Abruzzo). Le misure di tipo educativo si basano su un principio semplice che è già una prima erosione del privilegio di specie: se percorri i boschi, sei in un luogo abitato da altri soggetti che ne hanno titolo quanto te, ed è buona norma avere delle cognizioni di base sul loro comportamento e sui comportamenti da evitare. Si tratta in fondo di un aspetto di quello che, seppur in maniera ambigua, viene chiamato “turismo responsabile”. Bisogna poi sempre pensare – anche questo è un esercizio di antropodecentramento – che non esiste il “rischio zero”. La vita è rischio, altrimenti non è vita. Andare per i boschi, come in qualsiasi luogo, implica sempre dei rischi di vario tipo. L’umano però è abituato a predare senza essere predato, cacciare senza essere cacciato, deportare senza essere deportato. Quando poi c’è di mezzo il profitto, come nel caso degli allevatori, il privilegio di specie emerge in modo più forte. Qui certamente gli indennizzi sono uno strumento praticabile. Del resto, in Abruzzo la convivenza fra umani e orsi sostanzialmente funziona.
Quali sono gli obiettivi della manifestazione antispecista del 10 aprile?
Liberare gli orsi. Dire chiaramente che le soluzioni di “compromesso” non sono accettabili. Non è accettabile spostare M49 o tutti e tre i prigionieri in una “prigione dorata” (che tanto dorata, in realtà non è, se guardiamo alle proposte del deputato leghista Maturi e di Brigitte Bardot), rendendo disponibili posti per i prossimi soggetti “problematici”. Il Casteller va chiuso, semplicemente, e le soluzioni ai piccoli conflitti fra specie vanno risolte in altro modo, lasciando gli orsi liberi di autodeterminarsi nelle Alpi. Accanto a questo obiettivo chiaro, c’è in ballo una visione generale della gestione del territorio, che i soggetti locali che hanno promosso la campagna insieme ad Assemblea Antispecista, in particolare il Centro Sociale Bruno, hanno ben chiara e che implica non solo una critica allo specismo, ma una rottura con le pratiche di devastazione promosse dall’attuale classe politica. Queste pratiche, come sappiamo, includono una preferenza per il turismo di massa, la promozione della grandi opere (basti pensare alla TAV che arriverà anche in Trentino), un sostegno all’antropizzazione del territorio, quella sì davvero “problematica”.