Diritti umani e protezione dell’ambiente contano poco per le multinazionali finché non c’è la minaccia di una punizione. Per poter perseguire le loro azioni e quelle dei loro fornitori in tutto il mondo, ci sono ora iniziative legali a livello di ONU e UE, in Germania e in Francia. Anche in Austria, la campagna della società civile “I diritti umani hanno bisogno di leggi!” sta raccogliendo sostegno e firme per una legge sulle catene di approvvigionamento.

Di Bettina Rosenberger*

Il petrolio è sporco. Mette in pericolo la salute delle persone, distrugge la natura e porta a conflitti. Questo è anche il caso del Delta del Niger in Nigeria. A causa della mancanza di manutenzione, gli oleodotti hanno perso più di 11 milioni di barili di petrolio. Le conseguenze sono acqua potabile contaminata, pesci uccisi e campi incoltivabili. Migliaia di persone hanno perso i loro mezzi di sussistenza. L’aspettativa di vita nel Delta del Niger è di dieci anni più bassa rispetto al resto della Nigeria. Per tutto questo, la compagnia petrolifera olandese-britannica Royal Dutch Shell deve finalmente assumersi la responsabilità.

13 anni di lotta per la giustizia

Fin dagli anni 90 la popolazione locale si è ribellata, ma la loro resistenza è sempre stata accolta con la repressione. La dittatura militare nigeriana ha giustiziato l’attivista per i diritti civili Ken Saro-Wiwa e altri otto attivisti nel 1995 dopo un processo farsa. Nel 2008, quattro agricoltori hanno deciso di fare causa alla Shell in un tribunale olandese. Dopo diverse istanze, la filiale nigeriana della Shell è stata finalmente condannata a risarcire i danni ambientali, nel gennaio 2021. Anche se la lotta per la giustizia ha richiesto 13 anni, il verdetto dà speranza. Finalmente un’azienda deve assumersi la responsabilità. La filiale è posseduta al 100% da Royal Dutch Shell.

I colpevoli sono le multinazionali occidentali

Ogni giorno nel mondo vengono perseguitati dei sindacalisti, bambini sono costretti a lavorare in condizioni disumane e le risorse naturali vengono sfruttate. Spesso ne sono responsabili le multinazionali occidentali, le loro filiali o i loro fornitori. Nei paesi più poveri commettono atti che non oserebbero mai fare a casa loro.

Nel solo anno 2018, le aziende europee hanno esportato 80.000 tonnellate di pesticidi che sono ormai vietati da tempo in Europa e non possono essere utilizzati nell’agricoltura del nostro continente. Uno di questi pesticidi è il Paraquat, che è stato vietato nell’UE dal 2007. Eppure viene ancora usato in Indonesia e nelle Filippine, soprattutto nelle piantagioni di olio di palma. Lì, i lavoratori devono maneggiare il pesticida altamente tossico, spesso senza adeguati indumenti protettivi. Inoltre, il Paraquat inquina l’ambiente. L’olio di palma si trova in un prodotto su due nei nostri supermercati. Le persone altrove pagano con la loro salute per i nostri acquisti dallo scaffale del supermercato.

Morti per i profitti

Coloro che si oppongono sono spesso minacciati e perseguitati. Nel 2019 ben 212 ambientalisti sono stati assassinati, cioè circa quattro a settimana, due terzi dei quali in America Latina.

Anche le lavoratrici spesso pagano con la loro vita i profitti delle grandi imprese tessili. Nel 2013 il crollo della fabbrica tessile Rana Plaza in Bangladesh ha provocato più di 1.100 morti, mentre l’incendio del 2012 nella fabbrica pakistana Ali Enterprises ne ha uccisi 258. Rana Plaza produceva tra gli altri per Benetton e Mango, Ali Enterprises principalmente per KiK. Anche se entrambe le fabbriche erano altamente pericolose, erano state certificate per i loro standard di sicurezza e di lavoro, Rana Plaza dal TÜV Rheinland e Ali Enterprises dallo standard SA 8000. I certificati non hanno potuto evitare che la gente perdesse la vita.

Per mettere fine all’era delle fabbriche tessili che crollano e bruciano, sono necessarie regole vincolanti per le aziende. Nell’industria tessile lo sfruttamento non deve essere più permesso.

La volontarietà non funziona

Più di vent’anni fa Naomi Klein ha portato molti di questi abusi all’attenzione di un pubblico di milioni di persone nel suo libro “No Logo!” Poco è cambiato da allora. Gli standard volontari e altre forme di auto-impegno hanno fallito. A tutt’oggi, non riescono ad impedire che circa 1,5 milioni di bambini siano costretti a lavorare come schiavi per il nostro cioccolato in condizioni di sfruttamento nelle piantagioni di cacao dell’Africa occidentale. Il traffico di bambini è ancora un’amara realtà.

Gli esempi delineati mostrano anche quanto sia difficile per le persone colpite accedere ai rimedi legali. Se questo accesso manca completamente, le aziende rimangono impunite. Solo la responsabilità civile, come si dice in gergo, permette agli interessati di fare causa ed essere risarciti.

I principi guida delle Nazioni Unite su affari e diritti umani, adottati dieci anni fa, sono stati un tentativo di raggiungere una maggiore giustizia globale. Ma ancora una volta, l’attuazione è volontaria – e nulla è successo in Austria fino ad oggi.

Sempre più processi per regole vincolanti

Obblighi invece della volontarietà: questo è ciò che dovrebbe portare l’accordo delle Nazioni Unite su Economia e Diritti Umani, che è stato negoziato nel Consiglio dei diritti umani dal 2015. Il trattato delle Nazioni Unite potrebbe dare un contributo significativo per mettere fine all’impunità delle imprese. Il processo è sostenuto dalla Treaty Alliance, una coalizione di oltre 600 organizzazioni della società civile e movimenti sociali di più di 90 paesi.

Mentre la delegazione dell’UE rimane passiva nei negoziati del trattato ONU, c’è movimento a livello nazionale e comunitario. In tutta Europa sono in corso discussioni sulla responsabilità globale delle imprese. In Svizzera, l’iniziativa sulla responsabilità delle imprese ha ottenuto una maggioranza del 50,7% nel referendum del novembre 2020. Tuttavia, il progetto è fallito a causa della mancanza di una maggioranza dei cantoni. Il governo tedesco ha presentato recentemente una legge sulle catene di approvvigionamento. In Francia, una legge di questo tipo è già in vigore dal 2017. Una legge sulle catene di approvvigionamento deve essere intersettoriale e applicarsi a tutta la filiera. Oltre alla responsabilità civile, un elemento centrale di una tale legge deve essere l’introduzione dei cosiddetti obblighi di diligenza per i diritti umani e ambientali. Questi iniziano con un’analisi dei rischi che l’azienda deve condurre prima di iniziare qualsiasi attività. Questo può impedire le violazioni dei diritti umani e i danni ambientali.

A livello dell’UE, il commissario per la giustizia Didier Reynders ha annunciato l’anno scorso che avrebbe presentato quest’anno un progetto di legge comunitario sulle catene di approvvigionamento. 145.173 persone hanno recentemente invitato la Commissione Europea a dare seguito a questo annuncio con passi concreti. Dietro c’è un’ampia alleanza di ONG e sindacati di tutta Europa.

Legge sulle catene di approvvigionamento anche in Austria

Gli esempi della Svizzera e della Germania lo dimostrano: la pressione della società civile funziona! Questo è ciò che la campagna “I diritti umani hanno bisogno di leggi!” vuole ottenere ora anche in Austria. È sostenuto da diverse ONG, dalla Federazione dei Sindacati e dalla Camera del Lavoro. Insieme chiedono una legge sulle catene di approvvigionamento in Austria e nell’UE, così come il sostegno al trattato dell’ONU. La campagna è coordinata dal Social Responsibility Network, che è anche in stretto contatto con il comitato tedesco per una legge di questo tipo.

Con questa petizione sta aumentando la pressione sul governo austriaco e il 20 febbraio, in occasione della Giornata Mondiale della Giustizia Sociale, il testo della proposta è stato proiettato sulla facciata del Ministero della Giustizia a Vienna. La solidarietà non conosce confini!

Bettina Rosenberger coordina la campagna “I diritti umani hanno bisogno di leggi!” ed è direttore esecutivo di Netzwerk Soziale Verantwortung (NeSoVe).

 

Traduzione dal tedesco di Thomas Schmid