Donne, ambiente, spiritualità, diritti, ecologia integrale e sociale. Non sono parole vane, vaghe o retoriche, ma parole che intrecciano percorsi, significati e lotte. Sono parole che hanno fatto parte di alcune lotte che non hanno visto solo l’attivismo di movimenti sociali e politici, come in America Latina, ma anche di una fetta di Chiesa: quella spesso scomoda, quella che lavorava dal basso per la gente e tra la gente. È dalle comunità cristiane di base che sono nate riflessioni teologiche connotate da un forte senso di giustizia sociale. Tra questa una, forse, meno conosciuta: la teologia ecofemminista. Di questo parliamo con Cristina Simonelli, teologa ecofemminista, docente di teologia patristica a Verona (San Zeno, San Bernardino, San Pietro Martire) e presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale (Milano). Dal 1976 al 2012 ha vissuto in un campo Rom, prima in Toscana, poi a Verona. Figura di spicco del mondo femminile ecclesiale italiano e internazionale, è dal 2013 la Presidente del Coordinamento delle Teologhe Italiane. Ha commentato per Piemme l’Enciclica di Papa Francesco Laudato Sì: Sulla cura della casa comune (2015).

Terzomondismo, cristianesimo di base e Teologia della Liberazione. Dove si colloca la teologia ecofemminista? Come nasce?

L’ecofemminismo nasce da un incrocio di questioni e crea una sorta di vortice che avvicina mondi non immediatamente contigui. Molte donne impegnate a pieno titolo, con grande trasporto nei tre mondi che sono stati ricordati, hanno dovuto riconoscere ed esprimere un non piccolo disagio: i compagni di percorso non vedevano proprio una questione femminile all’interno della loro lotta. Il non vedere è infatti qualcosa di diverso da ostacolare, rifiutare… è proprio indossare, anche negli ambienti più aperti, per altri aspetti, gli occhiali dell’universale neutro che nasconde una spesso inconsapevole predominanza maschile. Per questo serve una presa di distanza femminista, che possa riprendere anche i fili di un percorso comune con gli uomini, liberati dalle gabbie che li costringono a una sorta di ansia di prestazione, anche su questi temi. Per altro versante la consapevolezza della interconnessione della vita ha messo in evidenza che ci sono fili profondi che collegano razzismo e specismo al più classico sessismo, passando per l’omofobia. Certamente ci sono anche dei nomi propri che vanno riconosciuti e sono quelli di Rosemary Radford Ruether, Ivone Gebara, Elizabeth Green, Elisabetta Donnini, Laura Cima, Vandana Shiva, fra le altre. Si possono anche agilmente leggere ottime rassegne, come questa di Ca’ Foscari: https://www.unive.it/pag/fileadmin/user_upload/dipartimenti/DSLCC/documenti/DEP/numeri/n20/02_20_-_numero_completo.pdf

Quando lei si è avvicinata alla teologia ecofemminista? Cosa ha significato per lei?

Per me ha fatto parte di un approccio secondo che giungeva dopo altre istanze, soprattutto legate alla stima per le minoranze e a una visione di Chiesa inclusiva. Quando però ho sentito parlare dell’ecofemminismo, l’ho riconosciuto presente nelle mie pratiche a un livello profondo, anche se non ancora esplicitato. Fra le diverse letture ricordo l’incontro con la riflessione che Elisabetta Donnini aveva dedicato a Chernobyl (La nube e il limite) e successivamente un volume a più voci curato da Monica Lanfranco e Maria Grazia Di Rienzo Donne disarmanti. Storie e testimonianze su nonviolenza e femminismi (Intra Moenia, Napoli 2003), un vero gioiello. Si potrebbe obiettare che non sono studi di teologia, ma la teologia respira anche con questo tipo di produzione, ne ha bisogno per meglio capire il Vangelo stesso. In Donne disarmanti c’è, fra il resto, un contributo di Starhawk (Miriam Silos), che per me è stato ispirante, «Perché abbiamo bisogno di voci femministe per la pace»: “Abbiamo bisogno di voci femministe per urlare che non c’è una gerarchia del valore umano, che ogni bambino dev’essere curato con tenerezza, che noi reclamiamo un terreno comune con le donne, i bambini e gli uomini in tutto il mondo […] Una voce femminista per la pace deve identificare e interrogare le radici che causano la guerra […] Abbiamo bisogno delle azioni delle donne, per fare queste più larghe connessioni, per affermare che la compassione non è debolezza e la brutalità non è forza. E per finire, abbiamo bisogno che donne e uomini uniscano le loro voci alle nostre per ruggire come una tigre madre in difesa dell’interdipendenza di tutta la vita, che è il vero terreno della pace”. Un testo così è intrecciato con le pagine bibliche, aiuta a meglio comprenderle. Per questo lo inserisco nel mio dossier di teologia.

Lei ha vissuto molto nelle comunità Rom. Sono loro che le hanno trasmesso il senso della “casa comune”?

Certamente devo alla mia vita in contesto Rom molto di quello che sento e che cerco di elaborare, anche per quanto stiamo dicendo: intendiamoci, le comunità Rom non hanno le caratteristiche che, fatte salve le idealizzazioni, siamo solito attribuire ai nativi americani, non si tratta di questo. E’ in primo luogo una condizione di una minoranza e dunque permette uno sguardo che decentra e che, al di là dell’intenzione, mette in discussione i modelli mainstream – e questo è l’aspetto più importante, legato di fatto anche alla loro estraneità alle guerre. Poi, in effetti, si tratta in genere di persone che amano la festa, anche abbondante, ma non trasformano “il mondo in una fabbrica”, come diceva Horkheimer nel secolo scorso del sistema sorto dalla rivoluzione industriale. E alla fine è proprio la “scienza maschia” baconiana che suggerisce lo sfruttamento fino all’osso dell’ecosistema. Questo per quello che vive e si vede da lì, diciamo. C’è poi il modo con cui vengono/veniamo guardati dall’esterno: in questo caso, rappresentano nell’immaginario maggioritario l’altro per eccellenza e per questo possono stare con le altre alterità, etniche, di genere, dell’ecosistema: fino a Auschwitz, per dirlo con una cifra drammatica ma realissima.

Lei è stata tra le più influenti ed appassionate commentatrici dell’enciclica Laudato Sì. Quale correlazione tra donne, ambiente e difesa di Madre Terra?

In Laudato Sì – il cui commento mi è stato chiesto, anche con mia sorpresa – ho trovato una felice sintesi fra due ottiche che spesso nel mondo cattolico si sono mosse in maniera parallela, anche se in alcuni contesti ne appariva chiara la connessione: “grido della Terra, grido dei poveri”, come si dice al n.49 del documento, riferendosi a una espressione di Leonardo Boff. È anche un documento coerente nelle sue parti e capace di dialogo con altre competenze, non teologiche, rilanciando il tema della connessione di tutti fenomeni (n.16), quella interdipendenza di tutta la vita delle ecofemministe. Credo che stia in questa riacquistata consapevolezza il punto che raccorda le due riflessioni: ogni modello di supremazia non verificato, ogni preteso universale che occulta le differenze sta nello stesso piatto della bilancia, sbilanciandola, appunto.

Come ha detto Vandana Shiva, la crisi sanitaria da Covid-19 ha evidenziato altre crisi sanitarie in una connessione di fenomeni ed eventi. Un segno che dobbiamo cambiare modello di sviluppo?

“Non torneremo alla normalità, perché la normalità era il problema”: questa frase proiettata con un gioco di luci sui grattacieli di Santiago ha fatto il giro del mondo e delle lingue e rende benissimo il senso della sfida globale rilanciata dalla pandemia, senza semplificazioni ma anche senza ingenuità. Che non torneremo come prima è un dato evidente, per molte ragioni. Ma come diventeremo, come stiamo diventando lo è molto meno, perché il Covid -19, diffondendosi anche in regioni che ormai si consideravano al sicuro dalle epidemie, ha rivelato condizioni e contraddizioni dei modelli economici, di welfare, di industria alimentare occidentale. La solidarietà sperimentata in alcuni momenti, il diverso equilibrio con nell’ecosistema intravisto durante il lockdown dello scorso anno si sono rivelati autentici ma anche fragilissimi, minacciati al contrario da povertà devastanti e nuove egemonie rampanti, inseriti in un meccanismo di inequità (per dirla con i termini di Francesco) globale. Certo i modelli dovremmo proprio cambiarli: ma è una mutazione che non avviene in maniera automatica.

Un nuovo modello di sviluppo significa cambiare paradigma e modo di vivere e di vedere il mondo. Quale cambiamento spirituale serve tra gli esseri umani e verso la Natura?

Mi sembra si possa dire – senza pensare di avere delle ricette pronte – che la conversione antropologica che ci serve è prima di tutto quella che smonta le equivalenze “crescita = vita felice” e sviluppo illimitato = benessere. Certo si può e si deve anche dire che è ingiusto che molti patiscano per la ricchezza di pochi, ma questa doverosa affermazione rischia, a maggior ragione in un momento di crisi, di non essere convincente e generare piuttosto il desiderio di cambiare parte e stare dove c’è benessere, a qualsiasi costo e chiunque lo debba pagare. La sfida è forse nel comprendere che solo in uno sguardo comune, solo nell’apprezzamento del limite, solo in un diverso equilibrio fra gli esseri, compresi gli umani, c’è una possibilità effettiva di vita buona e bella e dunque almeno serena. Forse una delle modalità per cogliere questo è ancora una volta il decentramento, vedere le cose con gli occhi altrui.

Secondo lei perché di questi temi si parla ancora troppo poco negli oratori e nelle parrocchie?

Forse perché viviamo, con interessanti e a volte insospettate eccezioni, una religiosità di conservazione, a bassa intensità. E perché si pensa che la fede viva di cose “di religione”. Immagino tuttavia che si possa dire anche da questo punto di vista che non terneremo alla “normalità”, se in questo ambito dovesse essere intesa come una pastorale clericale e da sacrestia: procedere in simile direzione, come per il modello di sviluppo, non solo ingiusto, ma decisamente autolesionista. Ci sono tuttavia dei segnali incoraggianti: di uomini (nel senso di maschi) che riescono a mettersi in discussione, di donne che hanno ancora voglia di considerare la realtà ecclesiale una casa da abitare e di cui aprire porte e finestre, di persone – ad esempio alcuni che vivono un orientamento e una relazione omoaffettiva – che pensano di collaborare a rendere più bella e inclusiva l’intera comunità, di persone che non si stancano di cercare modelli e profezie dove queste effettivamente si producono, magari in una giovane donna svedese.