Di Ilaria Di Roberto
Di recente abbiamo visto spopolare sul web una moltitudine di immagini e articoli inerenti alle manifestazioni a sostegno delle vittime di violenza che in questi giorni si stanno svolgendo in varie zone d’Italia. Una vera e propria mobilitazione di massa che a dispetto delle consuetudinarie adunate, stavolta ha per protagonisti gli uomini. Uomini che a cominciare da Biella hanno attraversato le città a piedi, muniti ovviamente, di tacchi rossi e mascherine dello stesso colore, uniti per dire no alla violenza contro le donne.
Ed è proprio a causa di tali peculiarità che il flashmob prende il nome di “Uomini in scarpe rosse”, marcia organizzata dall’imprenditore Paolo Zanone, altresì direttore artistico della compagnia “Teatrando” di Biella.
Una mobilitazione nata oltre che dall’esigenza di “chiedere scusa” per ogni atto, crudeltà e violenza perpetrata a danno delle donne, anche dalla consapevolezza che la piaga dei femminicidi non riguardi solo il genere femminile, ma soprattutto gli uomini, quali responsabili ed artefici del fenomeno.
Già l’espressione paradigmatica “violenza sulle donne” esclude infatti al livello semantico la radice del problema, più precisamente, gli artefici: all’interno della locuzione, gli uomini non compaiono e ciò é invalidante, poiché già la narrazione affida alle donne il compito di responsabilizzarsi, adottando le giuste precauzioni e lasciando intendere che il problema alla base di tale piaga siano appunto le donne.
Tuttavia, anziché amalgamarmi al clima fastoso e di esaltazione che in questi giorni sta animando le nostre bacheche perché “evvai, finalmente abbiamo anche gli uomini dalla nostra parte” o ancora “ce ne fossero di uomini così” ed addirittura “ringraziamoli, questi sono i veri uomini!”, preferisco apportare una piccola riflessione, a partire dalla matrice che si adombra dietro tali mobilitazioni. Tutto questo, senza ovviamente screditare l’intento benefico della manifestazione, al di là dell’impatto scenografico e dei significati circoscritti.
“Finalmente una manifestazione voluta dagli uomini!” – leggo.
Andiamo ad analizzarne le motivazioni.
Pochi giorni fa, la giornalista Milena Gabanelli ha lanciato un Tweet all’interno del quale esprimeva il suo rammarico relativamente al numero avvilente di femminicidi contratti negli ultimi giorni: “Ne ammazzano una al giorno ma io vedo solo donne manifestare, protestare, gridare aiuto – ha scritto la Gabanelli – “non ho visto una sola iniziativa organizzata dagli uomini, contro gli uomini che uccidono le loro mogli o fidanzate. Dove siete? Non è cosa da maschi proteggere le donne?”.
A distanza di qualche giorno, ciò che voleva essere, o almeno si spera, una semplice provocazione, si è trasformata di soppiatto in un invito rivolto a tutto il popolo maschile. Tant’è vero che dal giorno del suo tweet, sono state diverse le manifestazioni maschili a sostegno delle vittime di violenza.
Fermiamoci qui.
Cos’è stato a spingere questi uomini ad accogliere a braccia aperte l’invito di una donna alla sensibilizzazione e ad invogliarli addirittura a scendere in piazza in un giorno diverso dal 25 novembre e dall’8 marzo? Cos’è che ha fatto scattare la molla?
Partiamo dall’ affermazione-domanda della Gabanelli: “non è cosa da maschi difendere le donne?”
È cosa nota che il femminismo abbia una visione belligerante rispetto a qualsivoglia forma di stereotipo, diktat o archetipo retrogrado correlato al genere. D’altrocanto il genere (femminile/maschile) attiva il ruolo sociale (ciò che la società si aspetta da noi in quanto donne o uomini) inveterato come colla nel nostro subconscio attraverso tutta una serie di credenze e convinzioni limitanti alle quali nel corso dei secoli e delle ere, abbiamo aderito senza alcun tentennamento.
Tale adesione è confermata involontariamente all’interno delle dichiarazioni della giornalista, più precisamente nel passaggio in cui menziona l’atto del “difendere” e del “proteggere”, identificando la difesa e la protezione come “cose da maschi” e rimarcando con mera inedia uno degli stereotipi più avvalorati di tutti i tempi: l’uomo che protegge la donna perché essere umano di genere femminile, fragile, da difendere e di cui prendersi cura, quasi fosse un panda del WWF in via d’estinzione.
Riassumendo il tutto, l’idea si riduce a questo: non fate del male alle donne perché sono deboli, non sanno quello che vogliono, piuttosto proteggetele perché hanno bisogno di voi e senza il vostro apporto non potrebbero che estinguersi.
Ancora una volta, la donna viene collocata in una posizione subalterna rispetto all’uomo; la stessa inferiorità che se andiamo ad analizzare il fenomeno nella sua fattispecie, si pone alla base del movente di ogni femminicidio. Un movente che risiede proprio nella frazione “in quanto donna”, ancora troppo lontana dalla nostra comprensione, non ancora alla portata di tutti.
Cos’è successo, dunque?
Che aderendo al ruolo sociale assegnatogli “in quanto uomini”, essi “in quanto uomini” sono scesi in piazza muniti di tacchi rossi, pronti a gridare “al femminicidio” e avvalorando ancora una volta il modello stereotipico affibbiatogli.
Quali modelli?
Innanzitutto la concezione secondo la quale, un uomo che si adopera per una mobilitazione che contrasta la violenza, rappresenti una “specie rara”, a causa del cui apporto dovremmo sentirci in dovere di discostare l’attenzione dalla stragrande maggioranza degli uomini che invece commettono violenze perché “tanto ci sono loro a manifestare con noi”.
Di punto in bianco, grazie all’azione benefica del singolo, assistiamo al decadimento di tutto ciò che si pone alla base di questa dinamica sociale.
Decadono quasi tremila anni di patriarcato e genuflessione del genere femminile per mano di esso. Decadono l’Epifania millenaria a nostro scapito, la perpetua lotta di potere, la diatriba incessante di due generi costantemente in lotta tra loro e tutto ciò che ne consegue.
Ancora una volta abbiamo trasformato l’intervento benefico di pochi per edulcorare tutto ciò che nel giro di millenni, questa struttura predominante ha attuato a nostro scapito.
È l’incombenza di un “not all men” che è sempre dietro l’angolo, che allieta le nostre anime ingenue e ci invoglia a credere che nonostante le dinamiche oppressive che ci vedono sempre un passo indietro agli uomini, ci saranno sempre quei pochi a difenderci e a farci da scudo scendendo in piazza per noi.
Tutto questo senza tener conto di quanto possa risultare invalidante aderire a tali schemi. Un pò come la storia del famigerato “cugino competente” che a dispetto delle lauree e dei titoli acquisiti presso l’università della vita, avrà sempre una marcia in più rispetto a chi effettivamente, possiede un bagaglio culturale sistematicamente più ampio.
“Mio marito sarebbe sceso in piazza con me”.
“Anche mio fratello lo avrebbe fatto”.
“Il mio fidanzato è femminista quanto me, manifesta con me”.
Un nonnismo perpetuo che nella sua indolenza, svilisce di soppiatto ogni manifestazione, lotta o mobilitazione messe in atto dalle donne nel corso dei secoli. Una lotta che non fa di te un uomo solo perché IN QUANTO SINGOLO decidi di scendere in piazza travestito da stereotipo sessista. Che non fa di te un uomo perchè amalgamandoti all’azione benevola di altri SINGOLI, provi a liberarci dalle grinfie dei tuoi compagni di sesso biologico, ma riesce a fare di te ancora una volta, il protagonista di una delle sceneggiate più appassionanti e incredibili di tutti i tempi: il maschilismo benevolo.
Un maschilismo che a fronte del numero indeterminato di femminicidi, continua a diffondersi a macchia d’olio, divenendo sempre più acclamato ed idolatrato da chi si limita a pensare in piccolo e vive nell’erronea convinzione che il genocidio femminile, possa essere sostituito dall’intento benefico di pochi, distogliendo così l’attenzione dalla struttura che detiene il potere e ci esula dall’autodeterminazione.
Come? Attraverso l’ausilio di slogan romantici che ricordano di rispettarci in quanto madri, figlie, nipoti, petali di rosa, tutto eccetto che donne. Mediante l’utilizzo dei medesimi sistemi propinati dal capitalismo machista, come la presenza dei tacchi rossi, tra l’altro simbolo di oggettificazione femminile. Grazie alla fraudolenta celebrazione della “rarità maschile”, secondo la cui visione, il rispetto rappresenta un valore aggiunto, anziché la normalità.
Niente di più sbagliato!
Non abbiamo più tempo di regalare trofei, ma di esautorare la struttura che agisce a nostro danno e scapito.
Non abbiamo più tempo per ringraziare l’oppressore di concederci il rispetto, poiché il rispetto rappresenta un dovere morale non un privilegio. Non abbiamo più tempo per omaggiare e venerare chi si finge sostenitore delle nostre battaglie attraverso l’ausilio di dettami a stampo paternalistico, ma di scuotere ed invogliare le coscienze e gli uomini ad approfittare del potere che detengono all’interno di questa struttura fallocrate per delegittimare il loro predominio, mediante la pretesa di leggi più severe a danno del loro stesso genere. Stiamo parlando della stessa struttura che in questo momento sta infiltrandosi all’interno delle manifestazioni, attraverso l’ausilio degli Mra e delle organizzazioni a sostegno dei padri separati che finalizzano la propria solidarietà a se stessi, fungendo da promotori di libertà e giustizia.
Ora, conosco donne che davvero si batterebbero per i diritti di altre donne, includendo le loro stesse nemiche, ma voi avete mai visto un padrone reclamare i diritti dei propri schiavi o esigere l’inasprimento di leggi che finirebbero irrimediabilmente per penalizzare la loro categoria?
Anche io ho un paio di amici, due o tre cugini e circa una decina di conoscenti che si batterebbero per la liberazione femminile, che tra l’altro, si chiama così.
Tuttavia, non è il clan “not all men” il sistema che dobbiamo impegnarci a rovesciare, proprio perché essendo il fenomeno una piaga di carattere strutturale è la struttura che va ribaltata.
Non il singolo.
Non l’uomo in quanto individuo, ma l’uomo in veste di organismo predominante, lo stesso che nel corso dei secoli e delle epoche ha dilaniato, mortificato, sfregiato le nostre vite, rivelando i segni di un passato mai trascorso.
È solo grazie a questa consapevolezza che potremmo arginare il problema alla radice, decalcinando tutti quegli schemi, richiami, simboli e allusioni che anziché fornire la soluzione e debellare la piaga, finiscono inevitabilmente per renderci grate e riconoscenti al nostro oppressore.
Possiamo ringraziarli per aver dato vita ad uno spettacolo rappresentativo, ma sempre con la consapevolezza che una manifestazione scenografica senza atti concreti, resterà sempre e solo una bella scenografia.
Ilaria di Roberto, ex vittima di violenza e cyberbullismo, attivista femminista radicale, scrittrice.
Fonte: Movimento Contro Ogni Violenza sulle Donne https://www.movimentodonne.com/manifestazione-o-scenografia/