La vicenda giudiziaria di Netanyahu è, senza dubbio, uno dei fattori in gioco nel complesso scenario post-elettorale in Israele. Tutti aspettavano, insieme con i risultati definitivi delle elezioni, che saranno ufficializzati dalla Commissione Elettorale, anche la deliberazione dell’Alta Corte sul conflitto di interessi del premier.
Ebbene, sono adesso disponibili, tanto i primi, i risultati delle elezioni, quanto il secondo, il deliberato dell’Alta Corte. Quest’ultima ha stabilito che Netanyahu è tenuto ad attenersi alle norme inerenti al conflitto di interessi definite dal procuratore Avichai Mandelblit. Il deliberato, anche in considerazione della delicata situazione politica, può avere conseguenze significative, dal momento che il parere pone una seria ipoteca sulle nomine di alti funzionari delle forze dell’ordine e della giustizia, proprio a causa del processo a carico di Netanyahu.
In altri termini, Netanyahu non può essere coinvolto in questioni riguardanti testimoni o altri soggetti imputati nel processo a suo carico; né può essere coinvolto in provvedimenti legislativi che possano avere un impatto diretto sui procedimenti in corso; non può intervenire in questioni relative allo status di alti funzionari delle forze dell’ordine o coinvolti nell’accusa, nonché in una serie di campi che ricadono sotto la responsabilità del Ministero delle Comunicazioni, ambito per il quale è sotto processo, o del Comitato per le nomine giudiziarie, che nomina i giudici presso il Tribunale Distrettuale di Gerusalemme, e alla Corte Suprema.
Il processo a carico di Netanyahu è, infatti, assai delicato. Il capo del governo uscente è accusato di corruzione, frode e abuso di potere in due inchieste: il “Caso 2000” sulla trattativa con l’editore di Yediot Ahronot per una copertura mediatica a lui favorevole; e il “Caso 4000” sui rapporti con il proprietario del sito Walla, che controllava all’epoca la compagnia telefonica Bezeq, ancora per una copertura mediatica a lui favorevole.
La decisione del procuratore ha avuto riflessi immediati nella delicata transizione post-elettorale in corso in Israele. Il ministro della giustizia ad interim Benjamin Gantz, ex capo di stato maggiore di Israele ed ex contraente del patto che aveva determinato la formazione del governo uscente, non ha perso tempo nel dichiarare che Netanyahu è in conflitto di interessi «fino al collo». Non solo, «il suo rifiuto di nominare un procuratore di stato e un ministro della giustizia in carica dimostrano quanto il suo mandato di primo ministro possa destare preoccupazione». Del resto, Israele è giunto al quarto voto in due anni proprio perché Netanyahu ha di fatto respinto l’approvazione del bilancio – e la Knesset si è quindi sciolta – proprio per aggirare l’impegno (una specie di “patto della staffetta”) che avrebbe poi portato Gantz a succedergli come primo ministro.
Gantz è, a sua volta, una delle figure del variegato campo delle opposizioni, che formano il cosiddetto blocco anti-Netanyahu e che sono (e saranno) impegnate in contatti febbrili per formare una maggioranza che, nella realtà, valga ad impedire a Netanyahu di costituire un nuovo governo e di estendere il suo potere, e che, nella propaganda, viene definita come “governo del cambiamento”. In un’altra dichiarazione, Gantz ha subito portato la questione in politica: «Spero che tutti i partiti del blocco del cambiamento si uniscano per rimpiazzarlo». Viste le forze in campo, c’è poco da sperare in una formula, abusata e propagandistica, come quella del “cambiamento”.
Nel cosiddetto campo pro-Netanyahu, il premier uscente ha fatto appello a evitare l’ennesimo ritorno alle urne per sollecitare gli ex alleati a tornare a fianco del Likud (che resta primo partito, pur non avendo più, con i propri alleati, una maggioranza alla Knesset) e formare un nuovo governo. Questo campo si basa sull’asse tra Likud e destra religiosa: Shas (che rappresenta principalmente gli ebrei ortodossi sefarditi e mizrahì), Ebraismo Unito della Torah (che rappresenta principalmente gli ebrei ortodossi ashkenaziti), Sionismo Religioso (la destra radicale sionista che, al suo interno, ospita anche esponenti neo-kahanisti, eredi della vecchia formazione Kach, messa al bando e considerata oggi organizzazione terroristica tanto dagli Stati Uniti quanto dalla UE).
Nel cosiddetto campo anti-Netanyahu, viceversa, si moltiplicano contatti febbrili per verificare tutte le possibili soluzioni per costituire una maggioranza e dare luogo ad un governo tra forze politiche agli antipodi, con storie politiche, visioni ideologiche e basi sociali che definire “distanti” sarebbe eufemismo: Yesh Atid e Blu-Bianco, le formazioni della destra sionista Yisrael Beiteinu e Yamina, ma anche Nuova Speranza, Laburisti e Meretz; senza contare Ra’am, formazione araba conservatrice, che per un soffio ha superato la soglia di sbarramento ed è riuscita a entrare alla Knesset; ed ancora la Lista Congiunta, la coalizione della sinistra non sionista (Balad, partito arabo di orientamento laico e democratico; Ta’al, il “Movimento Arabo per il Rinnovamento”; Ma’an; e Hadash, il “Fronte Democratico per la Pace e l’Uguaglianza”, nelle cui liste si presenta anche il Partito Comunista di Israele, comunemente designato con l’acronimo storico “Maki”), che ha ottenuto sei seggi. Anche per questo, le consultazioni non cominceranno se non dopo la Pasqua ebraica, che quest’anno termina il 4 aprile.
Alla fine, con un’affluenza di poco meno di 4.5 milioni di elettori, il Likud si attesta al 24%, Yesh Atid al 14%, Shas al 7% e poco meno del 7% anche Blu-Bianco, quindi Yamina e il Labour a poco più del 6%, Ebraismo Unito della Torah e Yisrael Beiteinu al 5.6%, Sionismo Religioso al 5%, la Lista Congiunta e Nuova Speranza al 4.8%, infine Meretz al 4.6% e al 3.8%, appena al di sopra della soglia di sbarramento, Ra’am. Nelle maggiori città, a Gerusalemme Ovest, Ebraismo Unito della Torah è primo partito, primo partito a Tel Aviv Yesh Atid. Un ultimo aspetto, l’affluenza è stata intorno al 67%: si tratta del dato più basso dalle elezioni del 2009.