In attesa dei risultati ufficiali delle elezioni politiche in Israele, alcune valutazioni possono essere anticipate: non si tratta solo delle osservazioni elettorali “della vigilia”, ma di una riflessione panoramica che, attraverso lo spaccato elettorale e il dibattito pubblico in corso nel Paese, può offrire un quadro della sua scena politica, di cosa sia, oggi, dall’interno, lo Stato di Israele. A queste elezioni si è giunti dopo la rottura dell’accordo di governo faticosamente pattuito tra Benjamin Netanyahu, capo del governo uscente, e Benjamin Gantz, già capo di stato maggiore, leader della formazione politica che aveva ottenuto un buon risultato nelle precedenti elezioni, quel Blu Bianco, che aveva, tuttavia, dovuto pagare il prezzo di una aspra discussione interna e di una serie di strappi che ne hanno pesantemente segnato la parabola di consenso ed il passo in questa campagna elettorale.
Come si intuisce, è stato lo stesso Netanyahu il “playmaker” di questa impasse, spingendo la trattativa sul passaggio decisivo dell’approvazione della legge di bilancio fino al punto di rottura e piegando l’equilibrio politico verso una ancora più accentuata polarizzazione. La radicalizzazione dei toni, la polarizzazione degli schieramenti e l’avere incentrato il confronto pubblico sullo schema di un referendum sulla sua persona, se da un lato hanno avuto l’effetto di una personalizzazione deleteria del confronto politico, dall’altro hanno definito un terreno di gioco al premier uscente senza dubbio congeniale. Anche al prezzo di una forzatura: si è trattato, infatti, nel caso di queste ultime del 23 marzo, delle quarte elezioni politiche, per il rinnovo della Knesset, il Parlamento di Israele, in due anni; si è trattato, di fatto, di una sorta di referendum “pro” o “contro” la continuità al potere di Netanyahu, da 12 anni (15 in totale) al governo, sotto processo con accuse di corruzione e nel quadro di una strategia di gestione della pandemia rilevatrice di molti tratti del potere israeliano quale oggi è.
Per un verso, una strategia spregiudicata in relazione ai rapporti con le major di «Big Pharma» per disporre di quantitativi di vaccini tali da consentire una campagna di vaccinazione capillare (Israele è tra i primi Paesi al mondo a programmare una strategia di uscita dalle limitazioni imposte dalla pandemia). Per l’altro, una strategia non meno radicale che sviluppa persino sul terreno della vaccinazione la propria politica di colonialismo e di discriminazione nei confronti della popolazione palestinese sotto occupazione: solo a metà febbraio Israele ha permesso all’Autorità Palestinese di fare arrivare a Gaza le prime dosi di vaccino, un ritardo drammatico, che giunge a seguito, peraltro, delle critiche contro la decisione israeliana di escludere di fatto i palestinesi e le palestinesi della Cisgiordania e di Gaza dalla campagna di vaccinazione, sebbene, per il diritto internazionale, in quanto forza di occupazione, proprio Israele ha il dovere di assistere dal punto di vista sanitario i e le palestinesi.
Peraltro, a fronte dei pochi vaccini fatti arrivare nei territori palestinesi occupati, lo stesso Israele avrebbe pianificato una campagna di immagine con la donazione di migliaia di vaccini ad una ventina di Paesi in giro per il mondo (sono stati indicati, tra gli altri, Etiopia e Kenia, Honduras e Guatemala, ma anche, in Europa, Ungheria e Repubblica Ceca). Ciò dà l’idea dell’approccio israeliano al vaccino, tecnologia e organizzazione, unite ad una crescente radicalizzazione delle politiche contro i palestinesi. Su tale sfondo, la radicalizzazione e la polarizzazione spingono sempre più a destra l’asse politico di Israele. Lo mostrano anche le rilevazioni della vigilia: le forze di destra (Likud, Yamina, Nuova Speranza, Yisrael Beiteinu, Sionismo Religioso, Shas, Ebraismo Unito della Torah) sarebbero accreditate di 75-80 seggi, il centro – centro-destra (Yesh Atid e Blu Bianco) di 20-25 seggi, la sinistra sionista (Laburisti e Meretz) di 10 seggi, la Lista Congiunta (sinistra non sionista) di 10 seggi. Ciò significa che le intenzioni di voto portano, in un senso o nell’altro, più del 70% degli israeliani a schierarsi “a destra”.
Intenzioni di voto confermate nelle urne: con quasi il 90% delle schede scrutinate, il Likud sarebbe accreditato di circa 30 seggi, ma il partito, insieme con tutti i suoi alleati religiosi ortodossi e di (più o meno estrema) destra, non raggiungerebbe la maggioranza di 61 seggi, anche nel caso in cui la formazione Yamina, guidata da Naftali Bennett, che aveva peraltro escluso di sostenere il capo del governo uscente, si unisse ad un governo guidato dal Likud. Il Likud resterebbe comunque, di gran lunga, il primo partito, con il principale contendente, Yesh Atid, di Yair Lapid, fermo sotto la soglia dei 20 seggi. Ago della bilancia degli equilibri parlamentari, il piccolo partito arabo Ra’am, sulla soglia di sbarramento del 3.25%. Con quasi il 90% delle schede scrutinate, il Likud avrebbe quindi 30 seggi; Yesh Atid 17; Shas 9; Blu Bianco 8; i Laburisti 7; Yamina 7; Ebraismo Unito della Torah 7; Yisrael Beiteinu 7; la Lista Congiunta 6; Sionismo Religioso 6; Nuova Speranza 6; Meretz 5; Ra’am 5.
Si tratta di uno scenario, al di là delle cifre, paradossale: da un lato, un netto vincitore (il Likud) che non avrebbe però una maggioranza parlamentare sulla base della quale formare un nuovo governo; dall’altro, un tale blocco, una tale polarizzazione (tra pro- e anti- Netanyahu) e una tale frammentazione (almeno dieci partiti con meno di dieci seggi) da fare di Yamina o di Ra’am l’ago della bilancia dei futuri equilibri. Sul versante opposto, i media hanno riportato una delle prime dichiarazioni di Ayman Odeh, di Hadash, il Fronte Democratico per la Pace e l’Uguaglianza, parte della Lista Congiunta: «rimarremo una spina nel fianco per Netanyahu e i suoi partner».