Il diciassettesimo anniversario della grave ondata di violenza a sfondo etnico (un vero e proprio “pogrom”) contro i Serbi in Kosovo, che eruppe tra il 17 e il 19 marzo 2004, è stato segnato da un atto commemorativo presso il Teatro Nazionale a Belgrado: l’evento è stato intitolato alla “Giornata della Memoria 17 marzo 2004 – Pogrom in Kosovo e Metohija” e ha visto la partecipazione del presidente Aleksandar Vučić e del ministro del lavoro, dei veterani e delle politiche sociali, Darija Kisić Tepavčević. Nel corso dell’evento commemorativo, sono stati letti testi e sono state proiettate foto, immagini e video legati ai drammatici momenti del pogrom del 2004. Riprendendo alcune delle conclusioni degli organismi internazionali sugli eventi del Marzo 2004, nel corso della commemorazione, Vučić ha ricordato che l’obiettivo del pogrom, e l’intenzione dei nazionalisti e degli estremisti albanesi del Kosovo coinvolti nella violenza, era di fare sì che «non solo non vi fossero più Serbi in Kosovo, ma non vi fosse neanche più nulla a cui fare ritorno». Il pogrom, che scoppiò appena cinque anni dopo la fine della guerra nella regione, eruppe sull’onda delle tensioni etniche acuite dall’uccisione di un giovane serbo e, come motivo/pretesto degli eventi, dall’annegamento di tre ragazzi albanesi kosovari: un incidente, che fu però presentato come un episodio di violenza etnica anti-albanese. Nella prima stima “a caldo”, il 22 marzo 2004, la polizia ha stimato che oltre 50 mila persone abbiano preso parte a oltre 30 episodi di tumulto. Nel corso delle violenze, 27 persone furono uccise, più di 900 rimasero ferite, 935 abitazioni sono state distrutte, e ben 35, tra chiese e monasteri serbo-ortodossi, alcuni dei quali straordinari Patrimoni dell’Umanità, colpiti o distrutti.
La Nostra Signora di Ljeviš (la “Bogorodica Ljeviška”) a Prizren (Patrimonio dell’Umanità del XIV secolo), incendiata dall’interno, con i preziosi affreschi gravemente danneggiati e l’altare sconsacrato; la Chiesa del Santissimo Salvatore a Prizren (XIV secolo), incendiata; la Cattedrale di San Giorgio a Prizren (1856), incendiata e minata; la Chiesa di San Nicola (Chiesa di Tutić) a Prizren (XIV secolo), incendiata; la Chiesa di San Giorgio (Chiesa di Runović) a Prizren (XVI secolo), incendiata; la Chiesa di San Kyriaki (S. Nedelje) a Potkaljaja, Prizren (XIV secolo), bruciata; la Chiesa di San Panteleimon, a Potkaljaja, Prizren (XIV secolo), bruciata; la Chiesa dei Santi Cosma e Damiano, a Potkaljaja, Prizren (XIV secolo), bruciata. La Chiesa di San Kyriaki (S. Nedelje) a Živinjane, vicino a Prizren, minata e distrutta; il Monastero dei Santi Arcangeli a Prizren, fondato da Stefan Dušan nel XIV secolo, saccheggiato e bruciato; il Seminario Ortodosso e la Corte Vescovile di Prizren (1872), incendiati; la Chiesa di S. Elia a Podujevo (1929), distrutta e profanata, furono perfino profanate le tombe del vicino cimitero serbo e le spoglie disperse. E ancora il Monastero di Devič (1434) a Lauša, non lontano da Skënderaj/Srbica, completamente saccheggiato e incendiato. La commemorazione in Kosovo è stata tenuta dal Patriarca della Chiesa Ortodossa Serba, Porfirije, nel Monastero del Patriarcato di Peć/Peja (fondato nel 1346 da Stefan Dušan e Patrimonio dell’Umanità come estensione del Monastero di Dečani). Eventi commemorativi si sono svolti anche nel Monastero di Gračanica (pure Patrimonio dell’Umanità) e a Kosovska Mitrovica, dove è stato proiettato un video sulle violenze del 2004 e sono state esposte foto di chiese e monasteri in fiamme e di edifici all’epoca presi di mira.
Secondo il rapporto OSCE del 2008, “Quattro anni dopo. Sviluppi dei casi di tumulti del Marzo 2004 di fronte al sistema giudiziario penale del Kosovo”, «gli eventi drammatici e violenti del Marzo 2004 hanno rappresentato una grave battuta d’arresto nell’impegno del Kosovo per diventare una società multietnica tollerante che rispetti i diritti delle comunità non maggioritarie e i principi dello stato di diritto». Nel § 4, sotto il titolo “Ritardi”, il rapporto ricorda che «in base al diritto interno, i tribunali devono svolgere i procedimenti senza indugio. Analogamente, gli standard internazionali proibiscono ritardi ingiustificati e prescrivono che i processi debbano essere tenuti in tempi ragionevoli. Questa garanzia sottolinea altresì “l’importanza di rendere giustizia senza ritardi che potrebbero comprometterne l’efficacia e la credibilità”; nei processi, inoltre, evita che gli individui “rimangano troppo a lungo in uno stato di incertezza sul loro destino”. In Kosovo, la mancanza di capacità del sistema giudiziario e l’arretrato dei casi contribuiscono a ritardi nelle indagini e nei procedimenti. La gravità e l’ampiezza degli incidenti verificatisi durante le rivolte del Marzo 2004 hanno imposto alle autorità il dovere di agire con la massima diligenza nell’indagare e nel perseguire i presunti responsabili. Tuttavia, spesso i casi non sono stati completati in modo tempestivo. In particolare, nonostante le raccomandazioni del primo rapporto sui disordini del Marzo 2004, l’OSCE continua a rilevare: a) ritardi ingiustificati nel trasmettere i rapporti di polizia relativi a “nuovi” casi; b) ritardi nell’inizio dei processi principali dopo la conferma del rinvio a giudizio; c) ritardi ingiustificati del tribunale nella emanazione delle sentenze di primo grado».
Nel § 5, sotto il titolo “Condanne”, il rapporto afferma che «i disordini del Marzo 2004 hanno causato una minaccia e un danno sostanziali alla vita, alla sicurezza generale e alla tolleranza etnica in Kosovo. I tribunali avevano il dovere di inviare un messaggio forte alla popolazione del Kosovo che tali incidenti non sarebbero stati tollerati. L’indulgenza delle sentenze è stata una delle principali critiche contenute nel primo rapporto sui disordini. Nonostante le raccomandazioni contenute in quel rapporto, l’OSCE continua a osservare che i tribunali hanno generalmente emesso condanne clementi. Nella maggior parte dei casi, i tribunali hanno emesso sentenze vicine o addirittura inferiori al minimo legale. Inoltre, i tribunali spesso hanno sospeso l’esecuzione di queste condanne, sostituendo così le pene, già basse, con una pena alternativa». «In molti casi monitorati, la causa delle lievi condanne potrebbe essere stata la mancata considerazione del movente etnico come circostanza aggravante. In altri casi, i tribunali hanno imposto pene basse perché i pubblici ministeri hanno accusato le persone di reati meno gravi di quelli evidenziati dai fatti. L’indulgenza nelle condanne e il ridimensionamento delle motivazioni sono problemi endemici nel sistema giudiziario del Kosovo. Tuttavia, ciò non giustifica i tribunali nel comminare pene… che non riflettono adeguatamente la gravità dei crimini commessi». Esattamente 17 anni fa, il 23 marzo 2004, durante una visita alla città di Obilić, pesantemente colpita dalle violenze del pogrom, il capo missione UNMIK Harri Holkeri dichiarò che gli estremisti albanesi avevano «un piano già pronto» per le violenze.
Secondo la Corte Europea dei Diritti Umani, trattare la violenza e la brutalità di natura etnica su un piano di parità con casi che non hanno connotazioni razziste significa chiudere un occhio sulla natura specifica degli atti che sono particolarmente distruttivi dei diritti umani fondamentali. La mancata distinzione del modo in cui vengono gestite situazioni sostanzialmente diverse può costituire un trattamento ingiustificato in contrasto con l’art. 14 della Convenzione Europea dei Diritti Umani.