Sono state quasi cinque ore di intervista: molte cose aveva da raccontare Emilio, una vita intera. Il 22 marzo sarà in collegamento nella Giornata Internazionale dell’Acqua. Emilio continua, sempre sul pezzo, come ha imparato a 10 anni, in fabbrica….
Dopo l’esperienza come consigliere comunale a Milano, sei stato anche consigliere regionale in Lombardia
Sì, per dieci anni, dall’80 al ’90. Nelle istituzioni impari sempre, ma certo mi sono sentito molto isolato: nei primi 5 anni ero solo a rappresentare “l’opposizione rivoluzionaria in questo paese” (mi sto prendendo in giro, eppure la vivevamo così…), nei 5 anni seguenti c’era anche Pippo Torri e in due andava meglio.
Già allora l’80% del bilancio della Regione Lombardia era dedicato alla sanità. Con Elio Veltri, un consigliere ex socialista, denunciammo lo scandalo delle cliniche d’oro, cliniche private illegalmente finanziate dalla Regione. Poi c’erano l’agricoltura, l’energia… In quegli anni ci furono dei passaggi cruciali per la storia di questo paese: quasi da soli, come Democrazia Proletaria e con i cittadini dei territori coinvolti, fermammo la costruzione di centrali a carbone in Lombardia, mentre nel Piano Energetico Nazionale erano già previste due centrali: una a Tavazzano (vicino a Lodi) e l’altra nel pavese. Inoltre una centrale nucleare a Viadana, dove c’era un bel gruppo di giovani dell’ambientalismo nascente.
Racconto queste vittorie, perché di vittorie si trattò, perché i giovani non si sentano impotenti di fronte ai poteri. Perché si può vincere anche in pochi, con la gente, con la convinzione che fare l’opposizione è il principale dovere di chi è eletto, che si possono fermare le trivellazioni o si possono pretendere i vaccini. Si può e si deve: la politica non è solo governare, ma anche garantire l’opposizione.
Legambiente si stava formando, era piccola ma molto attiva. Fondamentale, contro il carbone, fu la Coldiretti. Ricordo che il leader democristiano della Coldiretti, Pisoni, era scatenato. Sulla questione nucleare avevamo meno appoggi e soprattutto non ci accontentammo dell’obiettivo del Coordinamento Nazionale contro il Nucleare che puntava a bloccare la costruzione di nuovi centrali; noi facemmo di tutto perché si chiudesse Caorso, a cavallo tra Lombardia ed Emilia, una centrale che funzionava nel silenzio generale.
Fermammo Caorso grazie a due fattori: nell’83 mi arrivò, da una soffiata, la notizia che la centrale nucleare non aveva mai attuato e sperimentato un piano di evacuazione. Quando ebbi la bozza di questo piano, abbandonata in un cassetto di qualche ufficio, con un giornalista della Rai una mattina ci presentammo lì. Girammo, cinepresa alla mano, tutti i siti dove avrebbero dovuto esserci i punti di raccolta ed evacuazione, le docce per i contaminati, cibo e acqua non contaminati. Non c’era niente! Ne abbiamo viste di tutti i colori, con i sindaci che cadevano dalle nuvole. La notizia uscì in televisione e su tutti i giornali. Ci fu un bel casino in Consiglio Regionale, ma il passaggio fondamentale arrivò quando un lavoratore, pur mantenendo l’anonimato, ci disse che voleva combattere con noi quella battaglia. Da allora ci passava tutte le informazioni, a ogni piccolo incidente che succedeva nella centrale lui mi telefonava, che fosse giorno o notte e io preparavo l’interpellanza da presentare al Consiglio Regionale. Quando si seppe chi era i suoi stessi compagni di lavoro gli bucarono le gomme dell’auto. Ma oramai la questione era cresciuta; una notte, come forma di protesta, io e Franco Calamida restammo a dormire nel centro d’informazione della centrale. Eravamo noi e il direttore, lui non andava via se non andavamo via noi e così restammo lì. Quel lavoratore intanto venne allo scoperto e raccolse anche qualche collega intorno a lui. A questo punto cominciò a raccontare per filo e per segno, anche ai ragazzini, il funzionamento di quella centrale. Alla fine dell’84 la centrale non fu più riaccesa; in molti avevano capito che era un colabrodo.
Negli anni ’90 sono tornato più volte a Caorso, come senatore, per vedere quel “monumento alla follia umana”: il nucleare non riesci a dismetterlo veramente, il reattore, per quanto spento, ha ancora lì 500 barre “addormentate”. Hai sempre timore e quindi ci sono decine di dipendenti che controllano il bidone. Pazzesco. Questo vale per Caorso, per Trino Vercellese, per Latina.
Nel ’90 non ero più consigliere regionale e i Verdi mi chiesero di candidarmi al Senato; io non ero convinto, avevo già avuto due bypass (mia moglie mi diceva: “Piantala lì!”), ma alla fine mi persuasero e venni eletto per due anni come senatore. Fu un’esperienza breve, ma intensa, che mi permise di continuare la battaglia iniziata alla Regione Lombardia sul difficile, se non impossibile, smaltimento dei rifiuti tossici nocivi. Fa parte dell’insostenibilità capitalistica: quel rifiuto lo produci e non lo elimini più.
Fino all’85 le ditte li smaltivano in grandi vasche o li buttavano nelle fogne e nei fiumi. Dopo l’85, in seguito alle tante denunce, bisognava portarli via: ed ecco il legame strategico con la criminalità che toglie dagli occhi della gente e dalla responsabilità delle aziende il rifiuto INsmaltibile. Ecco la Terra dei Fuochi, ma anche la Sicilia, l’Africa, la Somalia, o il Venezuela. A suo tempo io, Andrea Di Stefano, allora giovane giornalista free-lance e Legambiente Lombardia mettemmo in piedi l’ONTA, Osservatorio Nazionale Traffico Abusivo; eravamo in contatto con la Guardia Forestale di Brescia, che fu la prima a schedare i legami tra i vari smaltitori. Eravamo sul pezzo, nel ’93 visitammo la Terra dei Fuochi.
Rispetto ad allora siamo messi meglio o peggio?
Io credo che rispetto allo smaltimento dei rifiuti tossici nocivi siamo messi peggio: c’è più mistificazione, più imbroglio e paradossalmente c’è più silenzio. Faccio un esempio: nel 1976 ricordiamo ancora Seveso e la fuoriuscita della diossina, fu uno scandalo di cui parlò tutta l’Italia, anzi il mondo intero! La Regione Lombardia ne fece di tutti i colori con la bonifica, ma noi eravamo pronti a denunciare tutti gli imbrogli e gli omissis. Da allora nacque la prima direttiva europea sui rifiuti tossici nocivi, tanto che la chiamarono “Direttiva Seveso”. Adesso nei dintorni di Milano ci sono decine di capannoni dove non si sa che cosa ci sia e che ogni tanto bruciano. Non fuoriesce forse della diossina? Ma tutto quello che dicono, ARPA e sindaci, è: “Non è successo niente, per precauzione chiudete le finestre”. Le stesse parole che dissero a suo tempo a Seveso, ma allora c’erano i movimenti e la cosa esplose nella sua gravità. Al sud la Terra dei Fuochi c’è ancora, ma adesso gli “smaltimenti occultati” avvengono sia al sud che al nord, senza alcun problema.
Manca la continuità del controllo sul territorio, che i cittadini dovrebbero esercitare. Per esempio, chi abita vicino a Caorso o Trino Vercellese dovrebbe domandarsi che cos’ha sotto casa… In ogni ex centrale ci sono 500 barre con tanto di plutonio nel reattore e altre 500 nelle piscine di raffreddamento e sono lì perché non si sa dove metterle.
Come mai in Italia non c’è mai stato un Partito Verde forte come in altri paesi?
Perché la storia italiana della sinistra è rimasta troppo legata alla storia del PCI. Non c’è stata autonomia, crescita, in un’altra direzione. I Verdi sono stati spesso cinghia di trasmissione tra Legambiente e Partito Comunista, poi diventato Pds, DS, PD… E il passaggio è stato direttamente verso il liberismo: guarda caso leader ambientalisti come Chicco Testa, Ermete Realacci ed Edo Ronchi sono diventati dei manager. Non si sono allontanati da quella cultura. I Verdi tedeschi invece si sono staccati completamente dalla SPD.
Hai conosciuto da vicino molte esperienze di lotta nel mondo
Dal ‘94 vivo della mia pensione, non mi sono certo arricchito a abito ancora nei nostri due locali in via Paolo Sarpi a Milano. Non sono entrato in Rifondazione, sono uscito dai Verdi, ma ho cominciato a guardarmi intorno e ho conosciuto tante lotte nel mondo, a volte a fianco dei centri sociali, con i quali discutevamo, a volte con toni accesi, ma credo con reciproco rispetto. Litigo ancora con questa cultura dell’antagonismo, ma poi mi dico che sono gli unici a muoversi, gli unici ad anticipare i problemi. Sono andato più volte in Palestina, in Kurdistan e in Chiapas, ho conosciuto da vicino l’esperienza zapatista e l’ho fatta conoscere in giro per l’Italia, ovunque mi chiamassero. Erano gli esclusi, gli scarti, come dice il Papa, che risorgevano. Esclusi anche dal pensiero marxista (in quanto né lavoratori né disoccupati) o ambientalista di quei tempi, che non coglieva le conseguenze del capitalismo globale e dilagante. In Chiapas ho imparato molto. Parallelamente ho seguito il Forum Sociale Mondiale; dal primo incontro di Porto Alegre del 2001 io e Tina, mia moglie, li abbiamo fatti tutti. Da allora ho cominciato a occuparmi dell’acqua.
Né nella rete zapatista, né con i Social Forum siamo riusciti a scegliere UNA battaglia sulla quale concentrare tutte le forze. La Prima e la Seconda Internazionale, pur con le grandi differenze al loro interno, decisero di puntare sulla giornata lavorativa di 8 ore e dopo una lunghissima battaglia vinsero. Io credo che l’acqua come bene comune non privatizzabile avrebbe potuto essere questo obiettivo comune.
Eppure il referendum sull’acqua da grande vittoria si è trasformato in un’umiliante sconfitta
E’ stata una sconfitta, non del movimento, ma della politica in toto. Era un referendum che fino alle elezioni nessuno voleva, nemmeno i Verdi! Tra i partiti c’era solo Rifondazione. Una buona parte dell’ambientalismo non voleva opporsi alla privatizzazione e tuttora la pensa così. Anche i media erano contro. Ci fu una mobilitazione popolare diffusa che si impose; anche la gente che non si era mai mossa faceva il suo cartello, lo legava alla bicicletta e girava per le strade. Un moto popolare su una questione universale, un diritto. E’ vero, i governanti non hanno ascoltato il popolo, ma per questo i loro partiti sono in liquefazione. Le privatizzazioni vengono da lontano e non sono state solo un obiettivo della destra, ma anche di una bella fetta di sinistra. Il movimento dell’acqua ha provato a reagire da solo, dopo il referendum, ma non ce l’ha fatta.
Io faccio ancora tutto quello che posso, ho sempre in testa l’idea che i messaggi debbano essere trasversali e universalistici. In questo momento il valore universale che ritengo centrale è l’umanità. Se ho passato una vita all’insegna della lotta di classe, della classe operaia contro il capitalismo, è dal 2008 che dico che lo scontro è tra le multinazionali e l’intera umanità. L’acqua, l’aria, la salute, l’energia pulita, la conoscenza, la terra, il cibo, sono temi che hanno questo grande respiro; sono i beni comuni, da preservare dalla mercificazione, dalla quotazione in Borsa.
Dobbiamo avere ben chiari i limiti di questo pianeta. Chiamiamola decrescita o come vogliamo: è il pianeta stesso che la sta già praticando. Noi non possiamo più produrre le quantità attuali, consumare risorse come facciamo, non si può più. E questo devono capirlo tutti. Tutti.
Adesso sta nascendo una nuova rete delle reti, la Società della Cura, dove ci sono più di 200 associazioni. Io ci sono, assisto, vorrei dare una mano con le forze che ho, ma non esco quasi più di casa, indipendentemente dalla pandemia.
Ora però lasciami fare un appello. Da vecchio a cui vengono sempre più toni messianici, chiedo con tutto il poco fiato che ho, chiedo che ci si batta su due questioni: 1) I vaccini, e quindi i brevetti, sono un bene comune, come tutte le cure salvavita, in questo mondo dove si muore ancora di malaria, tbc, dissenteria, epatite. Questa campagna esiste già, ma è in mezzo a troppe altre campagne, troppe sollecitazioni diverse. 2) L’acqua bene comune e non bene economico, mentre l’ultima direttiva europea sull’acqua parla ancora vergognosamente di bene economico. E invece in piena pandemia, quando l’acqua è ancora più indispensabile per l’igiene, nel dicembre 2020 a Wall Street è uscito un titolo derivato dell’acqua. Non è possibile! Io chiedo che si concentrino gli sforzi su un numero ridottissimo di battaglie, chiare, forti e potenti, come quelle per i vaccini e per l’acqua bene comune.