Gemma Bird insegna politica e relazioni internazionali all’Università di Liverpool. E’ una ricercatrice, ma anche un’attivista per i diritti dei migranti. Ha trascorso lunghi periodi nell’isola greca di Samos, dove migliaia di rifugiati sono costretti a vivere in condizioni spaventose.

In questa intervista parla del ruolo degli accademici e della connessione tra i diversi campi della sua attività, racconta che cosa l’ha spinta e continua a spingerla a impegnarsi e denuncia le decisioni politiche prese dall’Unione Europea e dal governo greco, che tengono i rifugiati e i richiedenti asilo bloccati per anni nelle isole.

Gemma sottolinea l’importanza e la necessità di sfidare questo sistema e lavorare insieme per cambiarlo. Infine, descrive il futuro a cui aspira, un futuro senza confini e muri, basato sulla solidarietà e l’uguaglianza.

Benvenuta Gemma, benvenuta a Pressenza, benvenuta in questo spazio di donne che costruiscono il futuro. Benvenuta a casa.

Grazie per avermi invitata.

Gemma Bird è Professoressa Associata all’Università di Liverpool, nel Regno Unito. La sua ricerca si è recentemente concentrata sulla migrazione, la cittadinanza e tutti i modi in cui l’attivismo e l’attività accademica possono essere collegati. Ha pubblicato libri e articoli su diversi argomenti, come il pensiero politico di Kant, il dialogo interculturale e la teoria politica africana.

Gemma, tu sei un’insegnante, una ricercatrice e un’attivista. Come si collegano questi tre campi? Cos’hanno in comune?

Per me la ricerca universitaria è un modo di essere un’attivista, un modo di incarnare l’attivismo e un modo di usare una piattaforma per aumentare la consapevolezza delle cose che stanno accadendo nel mondo, per condividere lo spazio, per dare spazio alle storie e alle voci di altre persone. E insegnare è un altro modo per fare questo, per condividere la ricerca che faccio, per condividere le storie di altre persone con i miei studenti e per spingerli a pensare in modo diverso al mondo in cui ci troviamo a vivere. Sfidare lo status quo; sfidare le conoscenze radicate e ricevute e sperare che questo possa in qualche modo fare la differenza e, in qualche modo, sfidare la situazione in cui ci troviamo. Quindi penso che si integrino molto bene; per me, il mondo accademico è un modo di fare attivismo. Ci sono molti altri modi, ma questo è l’approccio che ho adottato finora.

Molto interessante questa connessione. Cosa ti ha motivato e cosa continua a motivarti nell’impegnarti nei campi che hai scelto?

Penso che la condivisione delle storie di cui parlavo prima sia probabilmente la chiave di tutto questo. Si tratta di trovare un modo per condividerle eticamente e trovare un modo perché le persone si connettano con esse. Credo che questo sia molto importante anche per il giornalismo: come raccontiamo le storie che accadono nel mondo? E questo cosa ci permette di fare? Ci permette di creare uno spazio perché le persone possano far sentire la loro voce? Non si tratta di dominare o controllare ciò che viene raccontato, ma di creare un ambiente in cui la gente possa raccontare la propria storia e sperare di poter cambiare le condizioni che la gente affronta.

Poiché lavoro molto sulle condizioni dei rifugiati, in particolare in Grecia, e so che voi avete fatto altre interviste su questo argomento, posso dire che ciò che è veramente importante per me e che mi spinge a portare avanti questa ricerca è che la situazione è spaventosa e non deve esserlo. Parliamo di una crisi dei rifugiati come se in qualche modo riguardasse l’Europa, ma la realtà è che è una crisi solo se noi permettiamo che sia tale. È una crisi solo a causa del tipo di risposta data dall’Europa – e dal Regno Unito, ora che abbiamo lasciato l’Unione Europea. È anche una questione umanitaria, non una questione europea. Ciò che motiva il mio lavoro attuale è sfidare tutto questo, è cercare di suggerire che questa idea di una crisi dei rifugiati in realtà è falsa. Ciò che è sbagliato è il fatto che non abbiamo risposto in modo corretto ai bisogni umanitari, quando l’Europa, il Regno Unito e gli Stati Uniti sarebbero perfettamente in grado di farlo.

Hai passato settimane e mesi nell’isola greca di Samos. So che vorresti tornarci, ma in questo momento è molto difficile. Puoi raccontarci qualcosa di questa tua esperienza?

Ho passato parecchio tempo a Samos, Lesbo, Chios e Kos, ossia quattro delle cinque isole hotspot, come vengono chiamate, così come in Serbia, ad Atene e a Salonicco. Penso che la gente non si renda conto delle condizioni in cui vivono i rifugiati e che queste condizioni sono il risultato di una scelta fatta a livello politico dall’Unione Europea, o dal governo greco, per mantenere condizioni inadeguate alle persone. Si è scelto di adottare politiche come l’accordo UE-Turchia, in base al quale le persone rimangono bloccate su queste isole per lunghi periodi di tempo. Quando si vede questo e si vede cosa sta succedendo alle persone, ci si rende conto che esiste un’alternativa alle condizioni a cui assistiamo, in cui le persone sono disidratate in estate, vengono morse dai topi e dai serpente, passano l’inverno in tenda nel freddo e devono fare lunghe code per avere accesso a cibo che spesso è immangiabile. Non si sceglierebbe mai di mettere le persone in queste condizioni, se solo le conoscessimo. Più la gente sa, più possiamo sfidare le decisioni politiche, perché le decisioni politiche sono una scelta ed è solo quando la gente risponderà alla politica e farà pressione sui politici che vedremo un miglioramento.

Finora abbiamo parlato del presente, ma questa serie di interviste si chiama “Donne che costruiscono il futuro”. Può descriverci il futuro a cui aspiri?

Abbiamo bisogno di un mondo che non sia basato su confini e muri, ma che riconosca il fatto che il luogo in cui siamo nati è una questione di fortuna. Si creano false gerarchie basate sui passaporti, sulla razza, sul genere, che non hanno bisogno di esistere. Abbiamo bisogno di sfidare tutto questo e imparare a lavorare in modo solidale, non per carità. Dobbiamo lavorare per stare fianco a fianco con le persone, non per offrire cose dall’alto al basso, ma per dire che in realtà siamo tutti uguali e tutti abbiamo il diritto di essere ascoltati, per esser solidali e per sfidare le gerarchie, che siano gerarchie stabilite dagli Stati, gerarchie stabilite dal concetto di carità. La solidarietà ci permette di sfidare tutto questo, di sfidare i confini razziali, di genere e i danni che causano.

Penso che questo sia il futuro a cui dobbiamo mirare; anche il mondo accademico dovrebbe fare di più e riconoscere il suo passato coloniale, il fatto che le istituzioni del mondo accademico sono spesso costruite su una storia coloniale, per marginalizzare e zittire certe voci. Non è la storia di tutti che viene raccontata, perché alcune persone vengono messe a tacere dai sistemi in cui viviamo. Quindi penso che abbiamo bisogno di sfidare le strutture di potere all’interno dell’educazione, all’interno dello Stato, all’interno delle istituzioni globali e arrivare a un punto in cui possiamo cambiare questo. Possiamo cambiare un sistema che ha emarginato e messo a tacere le persone lungo linee razziali e di genere, così come varie altre disuguaglianze, per un tempo molto lungo. C’è bisogno di sfidare il sistema in cui ci troviamo, in modo da arrivare a un punto in cui la solidarietà non sia solo una parola priva di significato usata dai politici, ma che riprenda il suo vero senso, cioè stare fianco a fianco con le persone e lavorare insieme per un mondo migliore.

Grazie Gemma per aver condiviso queste esperienze, questi pensieri, questa immagine di accademici che non sono persone aride e isolate, ma gente attiva che si preoccupa del mondo. Penso che questa immagine sia molto importante da condividere e ti ringrazio per averci dato la possibilità di sapere che ci sono tipi diversi di accademici, giovani e donne. Questo è davvero molto incoraggiante. Quindi grazie e buon lavoro.

Grazie mille.

Contatti: 

g.bird@liverpool.ac.uk

twitter: @gemmakristina

Traduzione dall’inglese di Davide Schmid