A dieci anni esatti dallo scoppio della guerra in Siria, riceviamo e pubblichiamo un fotoreportage dal confine turco-siriano dal nostro collaboratore @Dario Ruggieri
*in copertina il confine ufficiale turco-siriano.

A marzo 2021 sarà passato un decennio intero. Un decennio nel quale la Siria, la nazione più sviluppata del Medio Oriente, è stata distrutta da un conflitto intestino che ha coinvolto molti attori internazionali.
Dieci anni fa, a Daara, al confine con la Giordania, nel pieno del cleavage socio-politico della rivoluzione araba, scoppiarono i primi tumulti, le prime proteste, dimostrazioni (a tal proposito consiglio fortemente il documentario The Boy who started the Syrian War) contro quello che era e continuerà ad essere il regime tirannico ed autoritario di Bashar al Assad.
È una guerra abbastanza documentata. Nonostante ciò gli stati Occidentali molto spesso hanno chiuso gli occhi o li hanno aperti solo quando conveniva loro. Il numero di persone che hanno perso la vita nessuno è più in grado di contarlo.
Dieci anni di guerra, con attori internazionali quali Turchia, Russia, Usa, Iran, Iraq o Daesh e altre organizzazioni terroristiche hanno prodotto un quadro complicatissimo.
Siamo arrivati a circa 12 milioni di sfollati, con un contorno di devastazione, sofferenza e tanta miseria che ha contribuito ad una delle più grandi migrazioni degli ultimi decenni (una vera e propria diaspora). Il popolo siriano ha trovato rifugio in diverse nazioni, specialmente quelle più adiacenti al suo territorio. Tra queste vi è la Turchia, guidata dal sultano Recep Tayyip Erdoğan.
Tra le città turche maggiormente caratterizzate da un ingente flusso migratorio, prevalentemente rappresentato dalla comunità siriana, vi è sicuramente Gaziantep. Città millenaria, capitale del pistacchio, del baklava e centro gastronomico riconosciuto dall’Unesco come Creative City of Gastronomy, Gaziantep è cresciuta molto negli ultimi anni, a livello demografico ed economico. Sotto l’Impero Ottomano faceva parte della stessa regione di Aleppo e ad oggi è una delle città, insieme a Sanliurfa, Hatay, Kilis, Mardin, Istanbul ed Ankara con maggior tasso di melting pot turco-siriano.

 

Nel corso del tempo, la situazione per i rifugiati è diventata sempre più difficile, da tanti punti di vista. Innanzitutto, la difficoltà per l’accesso alla nazione turca (naturalmente per via illegali) è costantemente in ascesa, con l’aumento proporzionale dei cosiddetti smugglers, ovvero coloro che contrattano e hanno la gestione del passaggio dei rifugiati aldilà del confine, ove tutto è regolato dalla transazione economica, sottendendo la vita umana a pura merce (fenomeno della stessa natura, anche di natura peggiore, accade sulla cosiddetta “rotta balcanica” o sulle coste libiche).

 

 

 

Waalid, attivista siriano. Attività performative in videochiamata con i bambini di Idlib, Siria. Novembre 2020

Per quanto riguarda il contesto turco, nello specifico a Gaziantep, molti rifugiati lavorano come piccoli imprenditori o alla giornata. Chiaramente il discorso non è generale, specialmente per coloro che sono arrivati tanti anni fa e son riusciti a mantenere la propria attività o hanno saputo reinventarsi in altre mansioni. Discorso a parte meritano coloro che hanno un grado di professionalità elevata, i quali sono stati accolti di buon grado dal governo turco che ha concesso loro, nella maggioranza dei casi, la cittadinanza stessa. Il punto di svolta nella questione migratoria siriana in Turchia è avvenuto con l’accordo tra Erdogan e l’Unione Europea siglato nella primavera del 2016, ove sono stati garantiti 3 miliardi al governo turco affinchè bloccasse le frontiere del proprio paese (continuum economico iniziato con il programma IPA, che sta per Instrumentum Pre-Accession, ovvero le misure finanziate dalla Ue per favorire l’avvicinamento della Turchia ai requisiti economici richiesti per l’accesso all’Unione, che finora ammontano a 10,6 miliardi).
Inoltre, come sottolineato da Loris De Filippi, presidente di Medici Senza Frontiere Italia,
“il cinismo di questo accordo è evidente: per ogni siriano che dopo aver rischiato la vita in mare sarà respinto in Grecia, un altro siriano avrà la possibilità di raggiungere l’Europa dalla Turchia. L’applicazione di questo principio di porte girevoli riduce le persone a semplici numeri, negando loro un trattamento umano e il diritto di cercare protezione in Europa.”

La Turchia attualmente ospita sia una popolazione di oltre 3,6 milioni di rifugiati provenienti dalla vicina Siria, sia diverse centinaia di migliaia di richiedenti asilo e beneficiari di protezione di altre nazionalità, principalmente originari di Iraq, Afghanistan, Iran e Somalia.
A livello legislativo mantiene una legislazione risalente alla Convenzione di Ginevra del 1951 applicando il diritto d’asilo esclusivamente ai rifugiati provenienti da paesi europei.

Per i rifugiati siriani, la Turchia attua un regime di protezione temporanea, che garantisce ai beneficiari un diritto di soggiorno legale, nonché un livello di accesso ai diritti e ai servizi fondamentali. Lo status di protezione temporanea viene acquisito a prima vista, su base di gruppo, dai cittadini siriani e agli apolidi palestinesi originari della Siria. La DGMM (la Direzione Generale della gestione della migrazione) è l’autorità responsabile delle decisioni sulla registrazione e sullo status nell’ambito del regime di protezione temporanea, che si basa sull’articolo 91 LFIP e sul regolamento sulla protezione temporanea (TPR) del 22 ottobre 2014.
In breve, tutti i cittadini siriani che sono legalmente residenti in Turchia dal 28 aprile 2011, sulla base di un regolare permesso di soggiorno – come le altre nazionalità di stranieri legalmente residenti – hanno la possibilità di continuare la loro residenza legale in Turchia su questa base, a meno che non desiderino registrarsi come beneficiari della protezione temporanea.
Vi sono molteplici aspetti legati indissolubilmente alla questione della temporary protection e la quantità di conseguenze che essa produce sulla vita quotidiana dei rifugiati. Tra i tanti elementi, citiamo quelli riguardanti la libertà di movimento delle diverse soggettività interessate oppure la declinazione delle modalità riguardante l’assistenza finanziaria e sociale. La decisione sulla dichiarazione di protezione temporanea della Presidenza può contenere l’attuazione di queste misure confinata all’interno di una regione specifica della Turchia rispetto che all’intera nazione.
Dall’agosto 2015 le autorità del governo turco hanno imposto un’istruzione specifica per introdurre controlli e limitazioni ai movimenti dei siriani all’interno della Turchia. Sembra che l’impulso alla base di questa misura sia stato quello di fermare le crescenti traversate marittime di cittadini siriani verso le isole greche lungo la costa dell’Egeo. A seguito della dichiarazione UE-Turchia, le restrizioni alla circolazione sono state applicate in modo più rigoroso nei confronti dei beneficiari della protezione temporanea. Nel gennaio 2020 il governatore di Istanbul ha riferito che il numero di siriani che vivevano a Istanbul in base alla legge sulla protezione temporanea era stato ridotto a 479.420 persone nel 2019, ovvero 78.200 in meno rispetto al 2018 e che quasi 100.000 siriani non registrati erano stati mandati via da Istanbul.
Secondo quanto riferito, le autorità turche hanno arrestato circa 118.432 migranti a Istanbul nel 2019, rispetto ai soli 28.364 nel 2018.

Per quanto riguarda l’assistenza finanziaria-sociale, denota grande interesse l’analisi concernente l’aiuto economico che il governo turco garantisce ad alcuni nuclei famigliari siriani, corrispondente all’esigua cifra di 120 lire (20 dollari). Questi aiuti, in un clima di crescente odio e di ferocia propaganda causata dalla stagnazione economica turca (dovuta non solo all’avvento del Covid-19) instillano delle credenze nella popolazione, come quella che questo e altri programmi finanziati dall’UE siano finanziati dai contribuenti turchi (che ricorda molto la polemica nostrana sui 35 euro dati ai richiedenti asilo). Inoltre, secondo un rapporto di luglio di Al-Monitor, alcuni locali affermano anche che i siriani hanno vantaggi economici ingiusti perché possono aprire attività senza licenza e perché non sono soggetti ai requisiti fiscali imposti ai cittadini.

 

Associazione Amal for Education, Kilis (città turca al confine con la Siria), Ottobre 2020

Uno studio del 2018 condotto dai ricercatori Emre Erdoğan e Pınar Uyan Semerci dell’Università Bilgi di Istanbul ha rilevato che il 71,4% dei partecipanti al sondaggio credeva che i siriani stessero togliendo posti di lavoro alle persone in Turchia. I loro risultati hanno anche mostrato che il 67,4% di loro concorda sul fatto che i siriani stessero aumentando i tassi di criminalità; tuttavia, le statistiche della Direzione generale della gestione delle migrazioni (DGMM), pubblicate mesi dopo lo studio citato in precedenza, hanno mostrato che non solo la percentuale di siriani che hanno commesso un reato in Turchia era molto più bassa, ma che in realtà era addirittura scesa tra il 2017 e il 2018, dall’ 1,53% all’1,46%.
La Fondazione Hrant Dink ha pubblicato un report sull’Hate Speech in Turchia nel 2019.
Le nazionalità particolarmente colpite da questo fenomeno sociale e culturale sono gli armeni e i siriani. Nelle notizie riguardanti il ​​massacro di Khojaly e la Giornata della memoria del genocidio armeno del 24 aprile, gli armeni sono stati descritti come nemici essendo associati alla violenza e al massacro. L’anno scorso, il secondo gruppo più frequentemente preso di mira nei media turchi era quello siriano con 760 casi di hate speech nei loro confronti. Secondo il rapporto, i siriani sono stati sistematicamente codificati come criminali con i loro nomi menzionati nel contesto di episodi di omicidio, furto e molestie e sono stati identificati con problemi di sicurezza e terrore.[9]
Narrativa e costruzione del discorso sono sempre più caratterizzati da un clima d’odio notevole e diffuso, cavalcato in primis da alcune forze politiche. Ad esempio, Ümit Özdağ, deputato di Istanbul per l’opposizione di centro-destra Good Party, nell’aprile 2019 ha affermato che un milione di siriani erano occupati mentre sei milioni di turchi erano disoccupati, e ha rimproverato i lavoratori siriani per aver portato avanti proteste legate al lavoro. Tuttavia le dimostrazioni dei siriani erano inerenti ad un trattamento iniquo che ricevevano dai loro datori di lavoro: percepivano meno soldi rispetto ai loro colleghi autoctoni, creando discriminazione e un’asimmetria ingiusta.
E così, dopo 8 anni di immigrazione costante nel territorio turco, una vera integrazione e uno Stato di diritto non sono privilegi che il popolo siriano può dire di aver guadagnato. Le politiche del sultano sono ambivalenti, in particolar modo le sue azioni criminali sul territorio siriano destano scalpore e delusione. Il popolo siriano è sempre stata un’arma a doppio taglio per lui, il quale non ha mai considerato loro come una risorsa. In aggiunta, la crescita esponenziale di razzismo, discriminazione e odio per i rifugiati non aiuta a migliorare il contesto nel quale ci si muove.
Tuttavia, permane la speranza di poter lottare verso queste discriminazioni di ogni tipo, di ogni genere, tutti e tutte insieme, decostruendo la politica tirannica che il popolo siriano ormai riceve da 10 anni, da ambedue le parti.