Avevo detto nel mio ultimo monitoraggio che l’aria stava cambiando al processo di Locri contro Lucano e Riace, che il processo sembrava finalmente a una svolta. E man mano che gli esperti e i testimoni delle difese prendono la parola, la svolta si va consolidando.
Siamo usciti dal racconto monolitico delle ipotesi di accusa, che sembravano impermeabili alle tante pronunce dei tribunali che in questi due anni e mezzo dall’arresto di Lucano ne hanno di volta in volta smontato interi pezzi. Era successo con la sentenza della Cassazione sulla revoca delle misure cautelari, dove si era stabilito che l’affidamento della raccolta differenziata dei rifiuti a Riace era avvenuto secondo le norme e non c’erano stati comportamenti fraudolenti. Era successo di nuovo con la sentenza del TAR Calabria prima e del Consiglio di Stato poi, sull’illegittimità della chiusura dello Sprar di Riace e del trasferimento forzato dei migranti da parte del Viminale, che qualificava il modello Riace come “encomiabile negli intenti e anche negli esiti del processo di integrazione”. Era successo ancora con la sentenza del Tribunale del Riesame di Reggio Calabria, che aveva definito “inconsistente” il quadro giudiziario, denunciato l’assenza di riscontri alle conclusioni formulate dalla Procura di Locri perché fondate su “elementi congetturali o presuntivi” e ribadito l’assenza di “condotte penalmente rilevanti“. Insomma, i presunti reati cadevano via via sotto i colpi di queste sentenze, ma l’accusa montata dalla Procura proseguiva come se niente fosse nel riproporre ipotesi di reato già invalidate.
Ora, finalmente, con la presa di parola delle difese, la deposizione dei loro esperti e dei testimoni, quella invalidazione tiene banco all’interno del dibattimento stesso, sotto gli occhi di tutti, scompagina quell’apparente sicurezza e fa vacillare le tesi dell’accusa. Già a gennaio, il “supertestimone” era crollato durante il controesame da parte della difesa e aveva dovuto ritirare l’accusa di concussione contro Lucano. Ma ben altri passi si stanno facendo verso una ricostruzione più veritiera delle vicende di Riace, più proporzionata alla sua storia, più convincente rispetto alla distanza siderale fra la Riace modello di accoglienza per tanti e la Riace criminale presentata dalla Procura. E finalmente anche in aula risuonano quelle smentite clamorose che le ipotesi dell’accusa avevano già incassato.
Nell’udienza del 22 febbraio ha deposto Francesco Campolo, all’epoca dirigente dell’area immigrazione della Prefettura di Reggio Calabria, che aveva coordinato l’ispezione a Riace del febbraio 2017 con l’incarico di verificare la commistione fra le case del CAS e quelle dello Sprar segnalata da altre ispezioni. Campolo ha confermato di non aver riscontrato nessuna commistione, dato che le abitazioni erano correttamente distinte fra i due progetti. “Per noi era tutto regolare”. Racconta che avevano poi voluto allargare il campo della loro visita girando nelle varie strutture, la scuola, i laboratori ecc., parlando anche coi migranti. Alla fine, quell’ispezione era sfociata in una relazione molto elogiativa dell’accoglienza dei migranti a Riace, che fu stranamente secretata per circa due anni. Campolo riferisce di aver saputo che la relazione non era stata consegnata al sindaco, il quale, dopo averla invano chiesta ripetutamente alla Prefettura, alla fine riuscì ad ottenerla solo attraverso la Procura di Reggio Calabria; ma dice anche che il compito di trasmettere la relazione al sindaco non spettava a lui, ma al Prefetto. Dunque è stato proprio il Prefetto a tenerla nascosta, al punto da rischiare di incorrere, come osserva il Presidente Accurso, in un reato di omissione d’atti d’ufficio. Finora lo aveva detto solo Lucano nelle sue dichiarazioni spontanee…
Nell’udienza del 15 marzo è stata poi ascoltata in qualità di consulente della difesa Elisabetta Madafferi, Direttore Generale della Provincia di Reggio Calabria. La sua consulenza entra nel merito dei presunti reati imputati a Lucano. Sull’affidamento della raccolta differenziata dei rifiuti alle due cooperative sociali di Riace, conferma che Lucano ha agito in maniera conforme; l’Albo Comunale delle cooperative sociali era stato creato per ovviare all’inesistenza dell’Albo Regionale, in coerenza con quanto previsto dal codice degli appalti allora in vigore. Sulla mancata riscossione dei diritti di segreteria, conferma che, sulla base della legge Bassanini del 1997, il sindaco di un Comune non in stato di dissesto finanziario poteva legittimamente decidere di rinunciare a quei diritti. Quanto all’accusa di aver consapevolmente falsificato delle fatture al fine di ottenere comunque il massimo dei rimborsi precisa che, essendo le somme erogate in anticipo, e quindi prima che le spese fossero avvenute e rendicontate, Lucano non poteva avere idea di come sarebbero stati spesi quei soldi. Quanto alle accuse sui lungo permanenti, specifica che “il sindaco non ha in questo caso la titolarità del potere di allontanamento coattivo dai centri”.
Riferisce poi sulle due carte d’identità messe sotto accusa dal secondo processo, che la Procura di Locri aveva voluto aprire contro Lucano per falso ideologico il 2 luglio 2020, ma che era poi stato incorporato nel processo principale. Madafferi conferma che, secondo le linee guida emanate dal Ministero dell’Interno nel 2013, il rilascio della carta d’identità ai richiedenti asilo andava facilitato, ragion per cui in mancanza di permesso di soggiorno si considerava sufficiente la ricevuta della richiesta d’asilo. Per di più, è vietato espellere una donna che abbia partorito sul territorio italiano nei 6 mesi precedenti, e nel caso della ragazza eritrea cui Lucano aveva rilasciato la carta d’identità il suo bimbo era nato in Italia da appena 4 mesi. E conferma anche che la Prefettura chiedeva a Riace di ospitare molte più persone di quante non avrebbe potuto ospitarne date le dimensioni del paese; racconta di aver visto lei stessa documenti formali del Ministero che assegnavano al Comune di Riace altri 100 posti. Dunque ha ragione Lucano quando dice che per anni lo Stato ha sfruttato Riace per liberarsi di tanti migranti, salvo poi denunciare che a Riace c’erano più persone del dovuto…
Questo delle pressioni da parte di Prefettura e Viminale sul Comune di Riace perché ospitasse richiedenti asilo in gran numero, soprattutto negli anni dell’emergenza, è un punto molto importante, così come la collaborazione di Lucano. L’ex sindaco di Riace non si era mai sottratto, come scriveva lo stesso Campolo nella sua relazione, assicurando l‘ospitalità che altri centri rifiutavano. Anche Tonino Perna, oggi vicesindaco di Reggio Calabria, chiamato come testimone della difesa, racconta di queste pressioni. Ricorda come l’esperienza di Riace sia partita da quella di Badolato, dove lui lavorava con una Ong, come l’accoglienza si sia avviata grazie ad un prestito iniziale di Banca Etica e grazie alla solidarietà, per poi rivolgersi ai fondi pubblici con i progetti del Pna e dello Sprar. I numeri erano proporzionati e le cose andavano bene; accoglienza e sviluppo locale avevano rimesso in moto l’economia e fatto rinascere il paese. Negli anni però Prefettura e Ministero hanno spinto in alto i numeri. “Il Prefetto chiamava per 200 palestinesi”, riferisce. E Lucano accettava sempre. Avrebbe potuto rifiutarsi, certo, ma “un sindaco che sceglie la solidarietà come obiettivo, è ovvio che provi ad accogliere tutti” – conclude Perna.
Ma allora, quando Lucano nelle sue dichiarazioni spontanee denunciava il ruolo dello Stato nella vicenda di Riace, diceva la verità. Prefettura e Ministero facevano forti pressioni su Riace perché sapevano che il sindaco avrebbe collaborato, tanto che lo chiamavano “San Lucano”. E lui accettava perché la missione che si era dato era quella dell’accoglienza e dello sviluppo locale che le politiche d’accoglienza potevano mettere in moto. “Se invece di accettare i rifugiati che mi mandavano, avessi detto di no, oggi non sarei qui”, osservava Lucano davanti alla Corte. Inevitabilmente però queste pressioni comportavano anche scorciatoie: con quei numeri, e quei tempi stretti, quando i pullman carichi erano praticamente già nella piazza del paese, come avrebbe potuto il Comune bandire gare pubbliche per l’assegnazione dei servizi?
Per questo a Riace erano nate varie associazioni e cooperative, per riuscire a fare immediatamente fronte alla necessità di ampliare i servizi, che il più delle volte non lasciava alternativa. Nel processo però queste assegnazioni dirette sono diventate imputazioni di reato. Insomma, Riace veniva usata per risolvere l’emergenza, dopodiché è stata messa sotto processo con l’accusa di averla risolta “in modo emergenziale”; viene da dire che l’emergenza vale per lo Stato, ma non per chi concretamente si impegna ad accogliere le persone che lo Stato gli affida perché non sa dove metterle.
Questo meccanismo, di uno Stato che chiede di accogliere e poi abbandona chi accoglie, è alla base di questo processo e di tutto l’attacco a Riace, ma indica qualcosa che ci riguarda tutti da vicino. Rivela un’amministrazione che incespica, si contraddice, che tradisce i suoi stessi impegni e non si assume le sue responsabilità, che è succube dell’esecutivo di turno, e quindi incapace di progettazione e di lungimiranza. E’ lo stesso meccanismo per cui lo Stato per anni ha chiesto alle Ong di aiutarlo a soccorrere i naufraghi e poi ha cominciato ad incriminarle per aver continuato a farlo. Oppure che alle frontiere abbandona i profughi nelle sole mani delle persone solidali, e poi le persegue per reato di solidarietà. Ci rivela il rapporto tutto strumentale che intrattiene con le persone che “ingaggia” nella gestione dei problemi. Ma soprattutto ci fa capire come possano avvenire quei “rovesciamenti di senso morale e perfino di senso comune” che, come osservava Calamandrei al processo contro Danilo Dolci, si producono sempre in un processo politico.